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E va bene, fa’ come vuoi… Ma non sarebbe meglio sistemare le cose prima di andartene?

Certo, certo, ma come? Non voglio più Belle, dopo quello che mi ha fatto. E allora, cos’altro potrei fare? Denunciarli? Non fare lo stupido, sai bene che non hai la minima prova contro di loro. E poi, nelle cause, chi vince di sicuro sono solo e sempre gli avvocati.

Pete disse: — Vrrr! Lo sai!

Sì, Pete aveva ragione. Lui, quando aveva da regolare i conti con un altro gatto, non gli faceva certo causa, ma lo invitava a risolvere la questione a quattr’occhi, da gatto a gatto.

— Hai ragione come sempre — gli dissi. — Adesso vado da Miles, gli dico il fatto suo, e poi ce ne andremo io e te a fare il Lungo Sonno. Ma prima devo liberarmi il gozzo.

Trovai nelle vicinanze una cabina telefonica e chiamai Miles. Era in casa, e gli dissi di aspettarmi che sarei stato da lui dopo pochi minuti.

Sono nato nel 1940, un anno in cui, a detta di molti, l’individualismo era agli sgoccioli, e si preparava l’avvento all’era delle masse. Mio padre non la pensava così, e per questo mi aveva chiamato Daniel Boone Davis, in segno di amore per la libertà personale e di fiducia in se stessi.

Quando scoppiò la Guerra delle Sei Settimane, m’ero già laureato in ingegneria meccanica e mi trovavo sotto le armi. Non feci mai valere la mia laurea per ottenere una destinazione in qualche reparto di retrovia o per essere esonerato dal servizio militare, perché avevo ereditato da mio padre la teoria di arrangiarmi dando il minor fastidio possibile. Non comandare, non essere comandato, cercare di avere meno grattacapi che potevo. Volevo fare il mio periodo di servizio e poi rimettermi a lavorare, e basta. Allo scoppio della guerra ero sergente al Centro Armi di Sandia, nel Nuovo Messico, occupato a caricare di atomi le bombe atomiche e a pensare alla via migliore da prendere una volta che la guerra fosse finita. Quando Sandia fu distrutta io mi trovavo in missione a Dallas, e da lì fui mandato a Oklahoma City. Pete mi seguì in tutte le mie peregrinazioni.

Avevo un amico, Miles Gentry, un veterano richiamato. Aveva sposato una vedova, che era morta prima della guerra. Miles abitava ad Albuquerque, dove lo aspettava Federica, detta Ricky, sua figliastra. Ricky si affezionò molto a Pete e a me, e quando la guerra fu finita io e Miles decidemmo di mettere su una piccola azienda insieme. Miles era un ottimo uomo d’affari, io un buon tecnico, e la nostra unione era destinata a dare buoni frutti.

Trovammo, per quattro soldi, un vecchio capannone dell’aeronautica, nel deserto del Mojave, e lì iniziai i progetti della Domestica Perfetta. Sì, il creatore della domestica perfetta sono io, e io ho anche inventato tutta la serie degli elettrodomestici relativi, anche se su di essi non troverete il mio nome.

Mentre ero militare avevo pensato molto alle possibilità di un tecnico della mia specie. Potevo andare alla Standard, alla Du Pont, alla General Motors…, sì, e poi? Dopo trent’anni di fedele servizio, mi avrebbero messo in pensione, con un bel pranzo in mio onore. A saperci fare, avrei potuto entrare in qualche industria aeronautica, ma avrei sempre dovuto dipendere da altri e, salvo che per il periodo militare, ero sempre stato abituato a essere io il padrone di me stesso.

E allora? Non disponendo di capitali, avrei potuto fare come Ford e Wright. Ma non era più l’epoca romantica dei pionieri dell’industria. Quei tempi se n’erano andati per sempre.

Le industrie che progredivano di più e offrivano i migliori vantaggi erano quelle in cui regnava l’automazione.

Un paio di sorveglianti automatici, e tutto un enorme complesso industriale poteva funzionare: macchine minatrici che scavavano il carbone da sole e da sole lo caricavano e lo scaricavano, macchine che stampavano i biglietti in una città e mettevano nell’apposito spazio il timbro venduto in sei altre, e così via. Perciò, nei ritagli di tempo che ogni tanto mi capitavano quando ero al servizio dello Zio Sam, m’ero occupato a fondo di elettronica e cibernetica, nonché di circuiti speciali.

Tutto era automatico, ormai, meno una cosa: l’interno di una casa. Non crediate che io volessi inventare una casa scientifica, piena di aggeggi strani, quadranti, pannelli, leve e cose simili. No, le donne non l’avrebbero voluta.

Volevano soltanto una caverna bene addobbata e da tenere in ordine senza alcuna fatica. Nonostante che una donna di servizio fosse ormai un animale da leggenda, il problema delle domestiche era sempre vivo e scottante, e non ho mai conosciuto una padrona di casa che non avesse in sé un briciolo dell’antica tiranna. Sono tutte convinte che una povera ragazza di campagna dovrebbe essere grata e felice di poter lustrare i loro pavimenti quattordici ore su ventiquattro.

Per questo chiamai la mia creatura Domestica Perfetta, in quanto faceva riandare col pensiero ai tempi in cui mia nonna tiranneggiava una povera immigrata semischiava. Fondamentalmente, l’apparecchio era una lucidatrice-aspirante perfezionata, e noi progettavamo di immetterlo sul mercato a un prezzo di concorrenza.

La Domestica Perfetta, alludo al primo modello, non al robot semi-intelligente in cui la trasformai più tardi, puliva i pavimenti di ogni tipo, in qualunque stato fossero, e senza bisogno di sorveglianza. E pavimenti da pulire ce ne sono sempre.

Scopava, spazzava, lustrava, aspirava, a seconda che i circuiti della sua mente idiota decidessero di fare questo o quello. Girava dalla mattina alla sera alla ricerca di angoletti polverosi, e se trovava qualcosa di più grosso di un pisello lo poneva su un vassoio, che le avevo sistemato sul davanti, perché qualcuno più intelligente di lei decidesse se era da conservare o da buttare via. Passava e ripassava sui pavimenti puliti alla ricerca di macchie e sporcizia, finché la sua padrona non entrava nell’ordine di idee di girare un interruttore. Aveva un impianto autonomo di energia, e bastava attaccarla qualche minuto a una presa di corrente perché ne mangiasse a sufficienza per una giornata di lavoro.

Come vedete, la differenza tra il mio apparecchio e le comuni lucidatrici-aspiranti non era molta, tuttavia il fatto che eseguisse il lavoro da sola fu determinante per il suo enorme successo.

Il sistema di movimento autonomo l’ottenni copiando uno schema comparso su un numero di Scientific American negli ultimi anni del ’40. Presi un circuito mnemonico del cervello di un missile telecomandato (il bello degli aggeggi segretissimi è che non sono brevettati), aggiunsi i sistemi di aspirazione e pulitura presi da una dozzina di congegni, compresa una scopa elettrica in uso negli ospedali militari, e le mani meccaniche in uso negli impianti atomici per maneggiare le sostanze fortemente radioattive. Insomma, nella mia macchina di nuovo c’era soltanto il fatto di aver messo insieme tutti quei congegni. Quanto al lampo di genio richiesto dalle nostre leggi, ebbene questo consisteva nel saper trovare un avvocato specialista in brevetti.

Ma il vero, autentico genio stava nel sistema di produzione. In realtà tutto l’apparecchio avrebbe potuto essere fabbricato ordinando le parti necessarie dopo averle scelte sul catalogo Sweet, eccettuate un paio di canne tridimensionali e un circuito stampato. Il circuito era costruito sotto contratto, e le canne me le facevo da solo nel capannone pomposamente chiamato «stabilimento», adoperando residuati di guerra. Nei primi tempi, io e Miles lavorammo da soli. Il prototipo costò 4137 dollari e 9 centesimi. I primi cento apparecchi ci costarono circa 39 dollari l’uno, e li rivendemmo a un grossista di Los Angeles per 85. Poi Life dedicò due pagine alla mia Domestica Perfetta, e noi fummo costretti a cercare qualcuno che ci aiutasse a costruire quella mostruosità.

Belle Darkin si unì a noi poco tempo dopo. Fino ad allora avevamo battuto a macchina, con un dito solo, la nostra corrispondenza su una Underwood del 1908, ma quando assumemmo Belle come stenodattilo e contabile, le comperammo una macchina da scrivere elettrica del modello più recente ed elegante. Tutto il guadagno lo impiegavamo nello «stabilimento», dove io vivevo con Pete oltre che lavorare, mentre Miles e Ricky abitavano in una baracchetta poco distante. Per difenderci, formammo una società. Ma le leggi esigevano che i soci fondatori fossero tre, e così prendemmo con noi Belle, cui affidammo una parte delle azioni, e che nominammo segretaria tesoriera. Miles era presidente e direttore generale, io direttore tecnico e presidente del comitato azionisti con il 51 per cento delle azioni.