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— D’accordo, cara, ma non è così che si vezzeggiano i gatti. Così si fa con i cani. Non bisogna dare affettuose pacche in testa a un gatto ma si deve accarezzarlo, e poi non bisogna fare movimenti bruschi e improvvisi nelle sue vicinanze, né toccarlo senza avergli fatto capire prima quali sono le tue intenzioni, ed esserti accertata che le gradisca. Se non ha voglia di essere vezzeggiato, lascerà fare per un po’, perché i gatti sono molto educati, ma sarà meglio smettere prima che ti faccia intendere con le unghie che la sua pazienza si è esaurita. — Tacqui, e, dopo un attimo di esitazione, aggiunsi: — A te non piacciono i gatti, vero?

— Cosa? Ma che sciocchezze dici! Mi piacciono molto! — Però aggiunse: — Non che abbia avuto molti gatti fra i piedi, finora, a dire la verità. È una micia un po’ permalosa, la tua, no?

— Pete è un gatto maschio — corressi io. — No, non è affatto permaloso, per il solo fatto che non ha mai avuto motivo di esserlo. Però tu devi imparare a trattare i gatti. Ah, dimenticavo: non bisogna mai prenderli in giro.

— Ma che cosa dici?

— Forse non mi sono spiegato bene. Non ho detto che non siano buffi. Anzi, a volte sono estremamente comici, ma siccome non hanno il senso dell’umorismo, se gli fai uno scherzo si offendono, e, dopo, diventa difficilissimo farseli amici. Adesso, appena Pete tornerà, ti farò vedere come devi trattarlo.

Ma Pete se ne stette via un pezzo, e io non ebbi mai occasione, in seguito, di insegnare a Belle come si tratta un gatto. Lei gli parlava e lo trattava educatamente, ma tenendolo a debita distanza, e così faceva lui. Quanto a me, non ci pensai più, perché non volevo permettere che una faccenda di così poco conto, come credevo che fosse, influisse sui miei rapporti con la donna che amavo.

Solo un’altra volta il soggetto Pete rischiò di compromettere l’armonia fra me e Belle. Fu quando, mentre parlavamo della casa in cui saremmo andati a vivere dopo sposati, io espressi il desiderio di abitare in una villetta vicino allo stabilimento, anche perché Pete era abituato a trascorrere parecchio tempo all’aperto per le sue scorribande. Belle, che sosteneva invece la necessità di vivere in un appartamento cittadino, protestò: — Che sciocchezze anteporre al nostro benessere quello di un gatto! Se Pete è un po’ troppo vivace, come dici tu, lo porteremo dal veterinario, che con una piccola operazione lo renderà docile e mansueto.

Io la guardai inorridito, incapace di ribattere. Poi lasciai cadere il discorso: la data del nostro matrimonio era ancora lontana, e inoltre Belle non permetteva mai che una discussione degenerasse in un litigio.

In quei tempi, infine, io ero occupato col progetto del Servizievole Sergio, e avevo poco tempo da dedicare ad altri pensieri. La Domestica Perfetta e Vanda Vetrina andavano a gonfie vele, ma io non mi accontentavo. Avevo fissa in testa l’idea di creare un automa che fosse capace di svolgere tutte le mansioni domestiche, dalle pulizie alla cottura dei cibi, dal badare a un neonato al cambiare il nastro a una macchina da scrivere. Invece di fare tanti Domestici Perfetti, Vande Vetrine, Gini Giardinieri, Bianchine Bambinaie, volevo creare un’unica macchina che riunisse le doti di tutte le altre, al prezzo di una buona automobile.

Dunque, mi chiesi, cosa deve essere capace di fare il mio Servizievole Sergio? Risposta: tutti i lavori che un essere umano esegue nell’ambito domestico. Esclusi dalle sue mansioni la capacità di rispondere al telefono, in quanto la segretaria telefonica automatica svolgeva già brillantemente questo compito. Per fare tutte quelle cose, dunque, gli occorrevano le mani, gli occhi, le orecchie e un discreto cervello.

Per quanto riguardava le mani, il problema era subito risolto: potevo ordinarle alla stessa ditta che me le forniva per la Domestica Perfetta, solo che stavolta doveva procurarmi il modello migliore, quelle usate per maneggiare e pesare gli isotopi radioattivi, particolarmente sensibili e dotate di facoltà selezionatrici. La stessa ditta poteva fornirmi gli occhi, solo più semplici di quelli che era solita fare, in quanto il Servizievole Sergio non doveva vedere al di là di grossi muri di cemento e schermi di piombo come era per gli occhi installati nei reattori atomici.

Le orecchie le avrei richieste a una delle migliori fabbriche produttrici di materiale radiotelevisivo, anche se dovevo alterare qualche circuito, in modo che le mani fossero controllate simultaneamente dalla vista, dall’udito e dal tatto, come avviene nelle mani umane. Con i transistor e i circuiti stampati, comunque, si possono racchiudere un mucchio di congegni in uno spazio ristretto.

Per evitare che Sergio dovesse salire le scale, gli progettai un collo allungabile, e braccia altrettanto allungabili e flessibili. Ma a questo punto pensai che ci sarebbe stato qualche caso in cui, per forza, avrebbe dovuto superare dei gradini. Perciò decisi di usare come chassis il fondo di una poltrona a rotelle motorizzata.

Restava il cervello, la parte più difficile. Non è complicato mettere insieme un meccanismo che ricordi più o meno lo scheletro umano, ma se fra un orecchio e l’altro non c’è qualcosa che gli impartisca gli ordini di pulire, spazzare, rompere le uova (o non romperle), lavare, e così via, quel coso non è nemmeno un cadavere. Per fortuna io non avevo bisogno di un cervello umano, ma di un congegno capace di eseguire soltanto alcuni lavori.

Qui entravano in campo i tubi mnemonici Thorsen. I missili intercontinentali che avevamo lanciato nelle ultime guerre erano dotati di «pensiero» mediante le valvole di Thorsen e in città come Los Angeles il traffico era regolato da esemplari del genere. Non occorre entrare nella teoria di un tubo elettronico, che nemmeno i Laboratori Bell capiscono a fondo, l’importante è che si può inserire un tubo Thorsen in un circuito di comando, guidare la macchina nel corso di una operazione mediante controllo manuale, e la valvola in tal modo «ricorderà» quello che ha fatto, e in seguito sarà in grado di eseguire la stessa operazione, senza più bisogno di supervisione umana. Nel caso di un missile o del mio Servizievole Sergio, occorreva aggiungere anche circuiti secondari che permettessero all’insieme di «giudicare». In realtà non si trattava di un giudizio vero e proprio. Secondo me una macchina non potrà mai «giudicare». I circuiti secondari avevano il compito di scegliere, fra i tanti di cui erano capaci, il lavoro che conveniva fare date le circostanze. Le istruzioni fondamentali potevano essere numerose e complicate quanto lo era la capacità del tubo Thorsen, una capacità molto ma molto ampia. Bastava, come dicevo, averle fatte fare alla macchina una volta. Una valvola, e Sergio lavava tutti i piatti sporchi in cui si imbatteva. Un’altra, e lavava e ripuliva un bambino piccolo. Una terza, e stirava le camicie alla perfezione, senza mai sbagliare, posto che non si fosse sbagliato nel corso della prima prova. La facoltà di «giudizio», inoltre, dava la capacità di distinguere fra i lavori da eseguire, e scegliere quello più urgente e adatto alla situazione. Nel testone quadrato di Sergio si potevano facilmente inserire tubi Thorsen, ognuno con un «ricordo» diverso, e se cento mestieri non bastavano, mediante uno speciale dispositivo era capace di gridare aiuto quando si imbatteva in una cosa che non aveva mai fatto.

Costruii dunque il mio Sergio servendomi d’una poltrona a rotelle funzionante a elettricità, e una volta finito, il prototipo assomigliò a una piovra incrociata a una gru. Ma, gente, come lustrava bene l’argenteria!

Quando glielo mostrai la prima volta, Miles stette a osservare Sergio mentre gli mesceva un aperitivo, e poi girava a cercare un portacenere da ripulire (senza mai toccare quelli puliti), apriva la finestra, e infine passava a dare una spolverata ai miei libri. Sorseggiando l’aperitivo, Miles disse: — Troppo vermut.

— A me piace così. Però posso insegnargli a farli più leggeri per te — risposi. — Ha ancora parecchie valvole vergini in testa.