Ma Miles non si mosse. — Voglio che le cose siano fatte in regola — disse, cocciuto. — Belle, appello nominale, per favore.
— Bene. Miles Gentry, pacchetto azionario numero… — e scrisse il numero delle azioni di Miles — vota… come hai detto?
— Sì.
Belle scrisse «sì» sul taccuino.
— Daniel B. Davis, pacchetto azionario numero… — e qui il numero delle mie azioni, che ascoltai distrattamente — come voti, Dan?
— Ho detto no no e no! — sbottai, seccato di tutte quelle inutili formalità. — E con questo, spero che finalmente sia finita. Mi spiace, Miles…
Ma Belle non aveva finito. — Belle S. Darkin — continuò — vota per le azioni numero… — e ripeté un’altra fila di numeri: — Sì.
Io spalancai la bocca a quel «sì», e poi balbettai: — Tesoro, non puoi fare una cosa simile. Sai che ti ho ceduto quelle azioni perché… ma non puoi disporne a questo modo, contro di me.
— Il risultato delle votazioni! — pretese Miles, ignorando la mia interruzione.
— Due sì contro un no. La proposta è accettata.
— Metti a verbale.
— Subito.
Non ricordo con esattezza quello che accadde nei minuti che seguirono. Prima inveii contro Belle, poi cercai di prenderla con le buone, quindi le dissi che aveva agito in modo disonesto perché il mio era stato un dono simbolico (tanto è vero che avevo appena pagato la rata delle tasse di aprile per tutte le mie azioni), e che se mi faceva una cosa simile da fidanzati, figurarsi dopo sposati!
Lei mi guardò negli occhi, in un modo che mi fece uno strano effetto sgradevole. — Dan Davis, se davvero credi ancora che siamo fidanzati dopo tutto quello che mi hai detto, sei più stupido di quanto ti ho sempre creduto. — Poi si rivolse a Miles: — Mi accompagni a casa?
— Certo, cara.
Feci per dire qualcosa, ma preferii scappare via, altrimenti li avrei ammazzati tutt’e due.
Naturalmente, quella notte continuai a rigirarmi nel letto senza riuscire a chiudere occhio.
Verso le quattro del mattino mi alzai, feci una telefonata, e alle cinque e mezzo ero davanti allo stabilimento con un furgone da traslochi. Mi avviai al cancello con l’intenzione di aprirlo, entrare, e portare via il prototipo del mio Servizievole Sergio, ma con mia sorpresa vidi che al cancello era stato apposto un grosso lucchetto nuovo fiammante. Dopo il primo attimo di sbigottimento, mi tolsi il soprabito e il cappello, e non senza fatica scavalcai il cancello. Ma anche la serratura all’ingresso principale era stata cambiata.
La stavo fissando, incerto se spaccare un vetro della finestra, quando una voce intimò alle mie spalle: — Ehilà, voi! Mani in alto!
Invece di ubbidire, mi voltai furibondo. Un ometto anziano mi stava puntando contro un’arma capace di distruggere una intera città.
— Chi diavolo siete? — urlai.
— Chi siete voi, piuttosto?
— Io sono Dan Davis, direttore tecnico di questa azienda.
— Oh — disse l’ometto con evidente sollievo, ma senza abbassare l’arma. — Sì, corrispondete alla descrizione, ma per favore mostratemi i documenti.
— Perché? Chi siete voi?
— Io? Non v’importa chi sono, ma appartengo alla Società di Sorveglianza Notturna… eccovi la tessera. Dovreste sapere che la vostra ditta ha da mesi un abbonamento alla vigilanza notturna, ma stanotte io sono stato delegato qui con mansioni speciali.
— Davvero? Bene, se avete una chiave apritemi, e piantatela di puntarmi contro quel cannone.
— Mi spiace, ma non posso. In primo luogo non ho le chiavi, e in secondo luogo mi hanno impartito ordini speciali riguardo a voi. Non devo assolutamente farvi entrare.
— Ah sì? — gridai, sdegnato, e raccolto un sasso feci per scaraventarlo contro un vetro.
— Vi prego, signor Davis…
— Che c’è?
— Non insistete, altrimenti sarei costretto a sparare. Parlo sul serio. Leggete qui, invece — disse, porgendomi una lettera che aveva preso dalla tasca della giacca, e facendomi segno di tornare verso il cancello. — Mi hanno detto di darvela, nel caso foste venuto qui.
Lessi il foglio nella cabina dell’autofurgone.
18 novembre 1970
Egregio signor Davis, nel corso di una normale riunione dei dirigenti tenuta in data odierna, è stato deciso di troncare tutti i vostri rapporti (esclusi quelli di azionista) con la nostra azienda, come è contemplato nel paragrafo tre del vostro contratto. Vi preghiamo di volervi tenere lontano dalla sede della Società. Provvederemo noi a farvi pervenire le vostre carte e i vostri effetti personali.
La Direzione esprime i suoi sentiti ringraziamenti per i servizi da voi resi, e si rammarica che una divergenza d’opinioni l’abbia costretta al presente passo.
Sinceramente vostri,
Miles Gentry, Presidente del Consiglio di Amministrazione e Consigliere delegato. B.S. Darkin, Segretaria e Tesoriera.
Dovetti leggerla due volte prima di ricordarmi che non avevo mai avuto un contratto per cui si potesse invocare il paragrafo tre o qualsiasi altro paragrafo.
Più tardi, un fattorino mi recapitò alla pensione dove abitavo un pacchetto contenente il mio cappello, diverse matite, il regolo, alcuni libri, la mia corrispondenza, e un fascicolo di documenti. Ma non c’erano i progetti e i disegni del Servizievole Sergio.
C’erano dei documenti interessanti, a dire il vero, come ad esempio il mio contratto in cui, al paragrafo terzo, si leggeva che potevo essere licenziato senza preavviso, con un’indennità di tre mesi di stipendio. Ma più interessante ancora era il paragrafo sette: io m’impegnavo a non lavorare per un periodo di almeno cinque anni a partire dal giorno del licenziamento, per aziende in concorrenza con la Domestica Perfetta, e a non fondarne di similari, previo benestare di questa Società. Questo voleva dire che, se fossi andato col cappello in mano a chiedere lavoro a Miles e a Belle, probabilmente me l’avrebbero dato… Credo che mi avessero rimandato il cappello proprio per questo!
C’erano copie di tutti i brevetti, quello della Domestica e quello di Vanda Vetrina, e di altri aggeggi di secondaria importanza. Il Servizievole Sergio non era stato ancora brevettato, almeno lo credevo io. Scoprii più tardi la verità.
Ma i brevetti non erano nominali. Li avevo sempre richiesti per la Domestica Perfetta S.A., sembrandomi naturale, dato che mi identificavo nell’azienda che avevo creato.
C’erano poi i certificati relativi alle azioni, escluse quelle date in dono a Belle, non occorre dirlo, e l’assegno che ammontava a tre mesi di stipendio più, come spiegava il biglietto accluso, mille dollari che servivano a esprimere la gratitudine per i servizi resi alla Società! Molto carino da parte loro!
Mentre leggevo e rileggevo, mi venne in mente che non ero stato molto furbo a firmare tutte le carte che Belle mi metteva davanti ogni sera. Non potevo, infatti, mettere in dubbio che le firme in calce al contratto non fossero mie.
Il giorno dopo mi rivolsi a un avvocato, che alla fine della mia lunga e particolareggiata esposizione, disse: — Signor Davis, voglio darvi un consiglio che non vi costerà un soldo.
— E cioè?
— Non fate niente.
— Ma…
— Non ci sono ma. So quello che dico. Vi hanno imbrogliato, ma non ne avete la minima prova. Sono stati molto furbi, e non vi hanno tolto il pacchetto azionario, né l’indennità di licenziamento… secondo il contratto, validissimo, che avete con loro.
— Ma non è vero! Io non ho mai avuto un contratto!
— Negate che queste firme siano vostre? No. Mi avete detto poco fa che riconoscete la firma. C’è qualche testimonio che possa provare la verità delle vostre dichiarazioni?