Nessuno però mi parlava, per quante domande facessi, e continuavano a massaggiarmi e rimpinzarmi di cibo e medicine.
Poi, una mattina in cui mi parve di sentirmi perfettamente a posto, decisi di alzarmi. A parte un lieve senso di vertigine, tutto era a posto. Ricordavo chi ero, dov’ero, e perché mi trovavo lì, e sapevo che tutte le altre storie di Belle e del sergente erano stati soltanto sogni.
Sapevo anche chi mi aveva mandato lì. Se Belle, mentre ero ancora sotto l’effetto della droga, mi aveva ordinato di non serbarle rancore e di dimenticare i suoi tiri birboni, o i suoi ordini non avevano resistito trent’anni, o il sonno freddo li aveva distrutti. Ero incerto su alcuni particolari, ma non mi sfuggiva il fatto che mi avevano ingannato e messo in condizione di non potermi vendicare.
A dire il vero, non provavo più tanta collera nei loro riguardi. Sì, tutto era avvenuto ieri, giacché l’ieri era il giorno antecedente a quello in cui mi ero svegliato del tutto dal Lungo Sonno, ma non bisogna dimenticare che quel sonno era durato trent’anni!
È una sensazione impossibile a definirsi, dal momento che è soggettiva, ma mentre ricordavo benissimo quanto era accaduto ieri, le mie sensazioni e i miei sentimenti al riguardo erano pacati, distaccati come quelli relativi ad eventi lontani. Non avevo rinunciato all’idea di ritrovare Miles e Belle e farne polpette, ma c’era tempo… ora desideravo di più vedere com’era il mondo nell’anno 2000.
Ma a proposito di polpette, che gli piacevano tanto, dov’era Pete? Mi stavo decidendo a chiamare qualcuno per chiedere di lui, quando mi ricordai d’improvviso che i miei progetti nei suoi riguardi erano andati in fumo a causa dell’intervento di Belle. Perciò tolsi la pratica Miles-Belle dal cestino delle in sospeso per metterla in quello delle urgentissime. Quei due furfanti avevano fatto peggio che uccidere il povero Pete, l’avevano reso pazzo di dolore e di spavento abbandonandolo poi a se stesso… Nel frattempo sarebbe morto lo stesso, erano passati trent’anni e Pete ne aveva già nove nel 1970, ma chissà com’erano stati desolati e amari i suoi ultimi giorni, solo, affamato, derelitto! Quei due me l’avrebbero pagata cara!
Mi riscossi. Ero in piedi accanto al letto, col solo pigiama addosso, aggrappato alla spalliera per reggermi meglio.
Mi guardai intorno e potei constatare che le camere di ospedale non erano molto cambiate, negli ultimi trent’anni. Non c’erano finestre, né riuscivo a vedere la sorgente della luce che inondava la stanza, il letto era alto e stretto, come sempre negli ospedali, in più era snodato e aveva incorporato un tavolino e alcuni aggeggi a uso dei medici. Su un lato del tavolino c’erano alcuni pulsanti, ne premetti uno, e sul tavolino comparve una scritta luminosa: Un momento, prego.
Dopo pochi istanti la porta scivolò lentamente nella parete per lasciare entrare un’infermiera. A parte i capelli rosa viola, nemmeno le infermiere erano cambiate molto dal 1970. Questa aveva la solita aria linda a precisa delle infermiere di tutto il mondo, e se anche l’uniforme era di un taglio per me insolito, chiunque, in qualunque epoca, avrebbe capito chi era.
— Tornate immediatamente a letto — ordinò in tono perentorio.
— Vorrei sapere dove sono i miei vestiti.
— Vi ho detto di rimettervi subito a letto! — ribatté l’infermiera.
— Sentite, infermiera — le dissi, cercando di essere ragionevole — sono un libero cittadino, maggiorenne e incensurato. Non potete obbligarmi a tornare in quel letto se non ne ho l’intenzione. E adesso volete dirmi dove sono i miei vestiti, o devo mettermi a cercarli io?
Lei mi guardò fisso, poi si voltò di scatto e varcò la soglia. La porta scivolò lentamente al posto di prima.
Stavo pensando di scoprire in qualche modo il congegno che ne comandava l’apertura e la chiusura, quando la parete si aprì nuovamente per lasciar entrare un uomo.
— Buongiorno — disse il nuovo venuto. — Sono il dottor Albrecht.
Indossava un vestito che io avrei giudicato chiassoso anche a carnevale, ma i suoi modi sicuri e gli occhi stanchi mi convinsero che non mentiva. — Buongiorno, dottore — gli risposi. — Vorrei i miei vestiti.
Prima di rispondere, il medico varcò la soglia in modo che la porta si chiudesse dietro di lui, poi cercò in tasca le sigarette, e solo dopo averne accesa una e avermene offerta un’altra, che rifiutai, cominciò: — Sono specialista in ipnologia, resurrezione, e cose del genere. Mi trovo qui da sei anni, ma ho lavorato anche in altri ricoveri, e in complesso ho aiutato ottomilasettantatré pazienti a tornare dall’ipotermia alla vita normale: voi siete il numero ottomilasettantaquattro. Li ho visti fare le cose più strane al risveglio, strane per un profano, naturalmente, non per un medico. Li ho visti piangere e gridare che volevano continuare a dormire, li ho visti perfino tentare di uccidersi per la disperazione di non poter tornare indietro, e ne ho visti anche chiedere per prima cosa gli abiti per poter uscire alla svelta, come voi.
— Cosa c’è di strano? Non sarò prigioniero, spero.
— No, e vi daremo gli abiti. Li troverete di taglio antiquato, penso, ma questo è affar vostro. Ma mentre ve li mando a prendere, non potreste dirmi il motivo di tanta urgenza… dopo aver aspettato trent’anni?
Stavo per ribattere che avevo una premura infernale, ma capii che ci facevo la figura dello sciocco. Perciò balbettai: — No, forse non è tanto urgente.
— E allora fatemi il favore di tornare un momento a letto in modo che possa farvi una bella visita, poi farete colazione. E dopo magari scambieremo quattro chiacchiere, prima che vi precipitiate fuori. Chissà, forse potrei dirvi anche qualcosa d’interessante!
— Eh, già… sì, scusate, dottore. Mi spiace di essere stato tanto insistente — e così dicendo tornai ad arrampicarmi sul letto. Una volta coricato notai che stavo molto meglio.
— Non spaventatevi! — disse il medico notando la mia espressione preoccupata. — Dovreste vedere in che condizioni si svegliano certi. — Mi spianò le coperte attorno alle spalle, poi si chinò sul tavolino girevole e, dopo aver premuto un pulsante, disse: — Qui il dottor Albrecht, stanza diciassette. Portate una colazione tipo quattro.
Quindi si rivolse a me con un sorriso: — In attesa della colazione potrei darvi un’occhiata. Toglietevi la giacca del pigiama.
Quando ebbi obbedito, si chinò su di me a picchiettarmi e auscultarmi. Non usava stetoscopio, perciò pensai che avesse un apparecchio simile inserito nell’orecchio. Dopo avermi esaminato a lungo, si rialzò per dire: — Dimenticavo che la signora Schultz ha cercato già un paio di volte di mettersi in comunicazione con voi.
— Chi?
— La signora Schultz. Non la conoscete? Ha detto di essere una vostra vecchia amica.
Io ci pensai a lungo, poi scossi la testa. — L’unica signora Schultz che riesco a ricordare è la mia vecchia maestra di quarta elementare. Ma non credo che sia ancora viva.
— Non si può mai sapere — obiettò il medico. — Potrebbe essersi sottoposta anche lei al Lungo Sonno. Comunque, quando vorrete, potrete mettervi in comunicazione con lei. Appena avrete mangiato vi firmerò il permesso di uscita. Tuttavia, se avete buonsenso, resterete qui ancora qualche giorno per orientarvi… Ma ecco la colazione. Ci vedremo fra poco.
Stavo per protestare e trattenere il medico, quando l’inserviente, entrato con la colazione, attirò la mia attenzione facendomi momentaneamente dimenticare tutto il resto.
Avanzò dritto e sicuro, sistemò il tavolino davanti a me, dispose i piatti, poi mi chiese: — Devo versarvi io il caffè?
— Sì — risposi, e non tanto perché ci tenessi a risparmiarmi la fatica di versare il caffè, quanto perché così potevo avere modo di esaminarlo ancora per un poco, perché l’inserviente che mi stava davanti era il mio Servizievole Sergio!