— Un po’ di più non farà male a nessuno, ormai.
— Ebbene, credo che tre persone ci si siano provate. Ho detto credo. Uno era un istruttore. Ero in laboratorio quando il professore ce lo accompagnò. Ricordo che si chiamava Leo Vincent. Twitchell mi disse di andarmene, e io obbedii, ma rimasi nei pressi del laboratorio. Qualche tempo dopo anche il professore uscì, ma di Vincent nessuna traccia. Per quello che ne so, è ancora là dentro, e quello che è certo è che a Boulder nessuno l’ha più rivisto.
— E gli altri due?
— Erano studenti. Anche in quell’occasione Twitchell solo uscì dal laboratorio, mentre uno degli studenti ricomparve a lezione il giorno dopo, e l’altro la settimana seguente. Cosa sia successo, puoi immaginare da solo.
— E tu, non hai mai avuto voglia di provare?
— Io? Ho la faccia dello scemo? Twitchell ha insinuato più d’una volta che sarebbe stato mio dovere nell’interesse della scienza, ma io ho fatto sempre finta di non capire.
— Io invece proverei volentieri. Così avrei modo di scoprire quello che mi angustia, e poi tornerei qui con il Lungo Sonno. Ne varrebbe la pena.
— Non devi più bere birra, caro mio — disse Chuck con un profondo sospiro. — Non hai capito niente. Non ti ho detto che anziché nel passato puoi finire nel futuro?
— Sono disposto a correre il rischio. Mi trovo meglio adesso che ai miei tempi, e fra trent’anni mi troverei forse ancora meglio.
— E allora fatti un secondo Sonno, e buonanotte. Oppure campa e aspetta. E poi, anche se finisci nel passato, può darsi che i calcoli riescano sbagliati e che tu ti ritrovi in un anno diverso dal millenovecentosettanta. Per quello che ne so io, Twitchell non aveva modo di stabilire le date. Terzo: quel laboratorio era situato in una pineta, e venne eretto nel novecentottanta. Risalendo al novecentosettanta tu potresti ritrovarti nell’interno di un grosso pino. Ti piacerebbe? E poi come faresti per il Lungo Sonno?
— Che domande! L’ho già provato una volta e tutto è andato benissimo.
— D’accordo, ma che cosa useresti come denaro?
Aprii la bocca, per richiuderla subito. Un tempo il denaro l’avevo, ma adesso non ne avevo più, salvo i piccoli risparmi fatti in quei mesi di lavoro, risparmi che sarebbero comunque stati inutili qualora li avessi portati con me, perché nel 1970 non era ancora in uso la moneta di plastica.
— Lavorerei, e risparmierei per pagarmi il Lungo Sonno — dissi.
— Già, e come potresti essere sicuro di fare in tempo? Ma c’è ancora l’ultimo punto, quello che taglia la testa al toro. Non puoi sottoporti all’esperimento, perché non te lo permetterebbero. Basta che tu ne parli, e l’FBI mi si mette subito alle calcagna. Io solo, infatti, da queste parti, sono al corrente degli esperimenti di Twitchell. Così adesso beviamoci un’altra birra, poi io, lunedì mattina, se non sarò in prigione, telefonerò al direttore tecnico della Aladino per sapere a che nomi corrispondono le iniziali del D. B. Davis che ha firmato quella famosa richiesta di brevetti. Quanto a te, dimenticati tutte queste sciocchezze del viaggio nel tempo… Io non ne ho mai parlato, ricordatelo bene, e se mai insisterai ti guarderò fisso negli occhi e ti dirò che sei il più gran bugiardo che abbia mai conosciuto.
Bevemmo un altro boccale di birra, e poi ci lasciammo per andare a dormire. Appena a casa, un doccia fresca mi rischiarò le idee, e dovetti convenire che Chuck aveva ragione. Tanto per cominciare era meglio che aspettassi l’esito delle sue ricerche presso gli archivi della Aladino. Così, messomi almeno temporaneamente il cuore in pace, mi arrampicai sul letto, e lessi il giornale, che in quella movimentata giornata di venerdì 4 maggio 2001 non avevo avuto ancora il tempo di guardare. Ma non c’era molto d’interessante, salvo che le ricerche dell’astronave per Marte continuavano ancora, febbrili quanto inutili. Lessi anche tutti gli annunci economici, i necrologi, le partecipazioni di nascita, rinascita e matrimonio, e finalmente spensi la luce e mi addormentai.
Alle tre di notte mi svegliai all’improvviso, e accesi la luce, perfettamente lucido. Avevo sognato, e più che un sogno era stato un incubo, che mi era sfuggita, sul giornale, la partecipazione di rinascita della piccola Ricky.
Il sogno era stato talmente vivido e realistico che, sebbene mi dessi del visionario, fui costretto a riprendere in mano il giornale per controllare e tranquillizzarmi. Nella colonna Rinascite uno degli annunci diceva: Ricovero Riverside: mercoledì 2 maggio 2001 F. V. Heinicke.
F. V. Heinicke!
Ricordai d’improvviso che Heinicke era il nome della nonna di Ricky, sì, ne ero certo! Non sapevo il perché di questa certezza, ma era come se d’improvviso mi si fosse aperto uno sportello nella memoria. Forse avevo udito quel nome da Miles o da Ricky, nel passato, e ora esso riaffiorava d’un tratto, solo che dovevo avere ancora la prova che fosse lei, che quelle iniziali F. V. stessero per Federica Virginia. Roso dall’impazienza e dall’eccitazione, scorsi febbrilmente l’elenco dei telefoni alla ricerca del numero del Ricovero Riverside.
— Pronto, Ricovero Riverside — disse una voce assonnata. — Siamo chiusi per la notte.
— Non riattaccate, per favore.
— Cosa volete, a quest’ora?
— Ho bisogno di notizie su una vostra cliente risvegliata il 2 scorso, si chiama Heinicke…
— Non diamo informazioni telefoniche sui nostri clienti, soprattutto in piena notte. Provate comunque a ritelefonare alle dieci, ma sarà meglio che veniate di persona.
— Verrò, non dubitate, ma intanto non potreste dirmi a quale nome corrispondono le iniziali di questa persona: F. V. Heinicke?
— Vi ho già detto…
— Volete ascoltarmi, per favore? So benissimo come funzionano i ricoveri, perché sono uscito anch’io da poco dal Lungo Sonno, a Satwell. So che non date informazioni sui clienti, ma in questo caso il nome è già stato pubblicato dai giornali, che per risparmiare spazio hanno pubblicato solo le iniziali dei prenomi. Quindi non credo che ci sia niente di male se me li dite per intero.
Dopo una breve esitazione, il mio interlocutore concesse: — E sia! Aspettate un momento. — Attesi col cuore che mi martellava, finché risentii la sua voce. — Ecco qua. Un momento perché c’è poca luce… Dunque… Francesca… no, Federica. Federica Virginia.
Mi sentii rombare le orecchie e per poco non svenni.
— Basta così?
— Sì, grazie, grazie dal profondo del cuore.
— Sentite, credo che non ci sia niente di male a dirvi un’altra cosa, così vi risparmierete un viaggio inutile. La signora in questione è già stata dimessa.
9
Quando arrivai al Ricovero albeggiava appena. Trovai il portiere notturno, lo stesso che mi aveva risposto quando avevo telefonato, e sua moglie, infermiera di notte.
Sebbene avessi la barba lunga, gli occhi arrossati per il sonno, gli abiti in disordine per la fretta con cui li avevo indossati, loro non si mostrarono diffidenti. Anzi, la signora Larrington, l’infermiera, cercò di rendersi utile quanto più poteva. Prese una fotografia e, mostrandomela, chiese: — E lei? E vostra cugina, signor Davis?
Sì, era lei, Ricky. Non c’erano dubbi. Certo, non si trattava della Ricky che avevo conosciuto, perché questa non era una bambina ma una bella ragazza sorridente, di vent’anni o poco più.
Ma gli occhi erano immutati, e l’espressione, ferma e dolce a un tempo, era quella di sempre.
La stereofoto si confuse davanti ai miei occhi offuscati dalle lacrime: — Sì — balbettai con voce soffocata. — Sì, è Ricky.
Il signor Larrington rimproverò la moglie. — Nancy, non avresti dovuto fargli vedere la foto.
— Perché, cosa c’è di male? — disse lei.