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— Conosci bene il regolamento — la rimproverò il marito. Poi, a me: — Signore, come vi ho già detto per telefono, non diamo informazioni sui nostri clienti. Quindi, siate così gentile da tornare alle dieci, quando sono aperti gli uffici.

— Potrebbe tornare alle otto, se ha tanta premura. A quell’ora c’è il dottor Bernstein — intervenne sua moglie, sempre conciliante. — E poi la cugina di questo signore è già uscita. Non è la ragazza che è partita per Brawley?

Suo marito protestò, ma la donna era decisa a proteggermi, e mi consigliò di andare a fare colazione in un caffè lì vicino, per ingannare il tempo in attesa delle otto. Seguii il suo consiglio, e all’ora fissata tornai al Riverside.

Il dottor Bernstein era un giovanotto rigido e serio, molto compreso delle sue funzioni. Non si lasciò commuovere dalla mia eloquenza, e si limitò a promettermi che avrebbe parlato col direttore, ma solo dopo aver controllato presso il dottor Albrecht la verità sul mio conto.

Volente o nolente, non riuscendo a ottenere altro da lui, me ne andai. E forse commisi uno sbaglio, perché invece di aspettare l’esito del suo colloquio col direttore preferii recarmi in quel paese, Brawley, che l’infermiera aveva nominato qualche ora prima.

Arrivato a Brawley, dovettero passare tre giorni prima che mi fosse possibile ritrovare traccia di Ricky. Sì, era vissuta là, con la nonna, la quale però era morta da vent’anni, e lei s’era sottoposta al Lungo Sonno. Brawley ha solo centomila abitanti, così potei scoprire anche tracce del suo passaggio recente, ma con mio disappunto appresi che non era sola. Io ero sulle tracce di una ragazza sola, invece scoprii che viaggiava insieme a un uomo. Chi poteva essere? Seguii una falsa pista a Calexico, poi tornai a Brawley, dove trovai altre tracce che mi portarono a Yuma. E qui rinunciai a continuare perché Ricky si era sposata. Quel che lessi sul registro del municipio mi sconvolse al punto che piantai tutto in asso e presi il primo mezzo celere per Denver, dopo aver scritto in fretta e furia a Chuck per chiedergli di vuotare la mia scrivania e portare tutto nella mia camera.

A Denver mi fermai il tempo necessario per recarmi alla sede di una ditta fornitrice di materiale per odontotecnici. Non ero mai stato a Denver dopo che era diventata la capitale. Alla fine della Guerra delle Sei Settimane, Miles e io eravamo andati direttamente in California, e così trovai la città mutata al punto da non potermici orizzontare. Mi avevano detto che tutti gli uffici governativi erano in un sotterraneo scavato sotto le Montagne Rocciose, ma con tutto questo, Denver era ancora più estesa di Los Angeles.

Comunque, mi feci portare da un tassi direttamente al magazzino della ditta, dove acquistai dieci chilogrammi d’oro, isotopol97, sotto forma di bobine di filo. Lo pagai 86 dollari al chilo, cioè molto caro dal momento che l’oro per usi meccanici era sui 70 dollari al chilo, tuttavia l’oro per uso meccanico si vendeva in leghe introvabili in natura, o negli isotopi 196 e 198, mentre io, per lo scopo che avevo in mente, volevo oro fino.

Mi avvolsi i fili d’oro a spirale intorno al petto, e partii per Boulder. Dieci chili d’oro sono un bel peso, e mi facevano sembrare un botticella, ma io volevo essere sicuro di averlo sempre con me, e in lingotti sarebbe stato ancora più ingombrante.

Il professor Twitchell abitava ancora a Boulder, ma non insegnava più, e trascorreva quasi tutto il suo tempo al bar o al circolo della facoltà. Mi ci vollero quattro giorni per trovare il bar frequentato dal professore, perché non m’era stato possibile andare da lui al circolo precluso a un estraneo quale ero io. Quando finalmente lo scovai, mi accorsi che non era difficile fargli accettare un bicchierino.

Il professore era una figura tragica, nel senso classico della parola. Era un grand’uomo, un grandissimo uomo in declino. Il suo nome avrebbe potuto essere messo a fianco di quelli di Einstein o di Newton, e invece, così com’erano andate le cose, solo pochissimi specialisti del suo campo conoscevano l’enorme importanza del suo lavoro. Quando lo conobbi io, il suo brillante ingegno era già offuscato dalla delusione, dagli anni e dall’alcol. Ne riportai la stessa impressione che se avessi visitato le rovine abbandonate di un magnifico tempio.

La prima volta che l’incontrai, alzò gli occhi su di me e disse: — Di nuovo voi.

— Come?

— Non eravate uno dei miei studenti?

— No, signore, non ho mai avuto questo onore. — Di solito quando la gente insiste a dire che deve avermi già visto da qualche parte tronco netto, negando la possibilità del fatto, ma questa volta dissi invece: — Forse mi scambiate per mio cugino, che si è laureato nell’ottantasei e che seguì i vostri corsi, come non ha mai perso l’occasione di far sapere.

— Davvero?

Come non ci si inimica certo una madre dicendole che il suo bambino è bellissimo, così mi bastò questo velato complimento perché il professore mi invitasse a sedere e permettesse che gli offrissi una bibita. Nei quattro giorni da che lo cercavo avevo fatto il possibile per saper tutto sul suo conto, così conoscevo i libri che aveva scritto, le pubblicazioni che aveva presentato nei vari congressi, e dove e quando aveva tenuto le sue conferenze più importanti. Avevo anche cominciato a leggere uno dei suoi libri, ma a pagina nove ero stato costretto a rinunciare, anche se, forse, qualcosa capivo.

Gli lasciai intendere che mi occupavo, a tempo perso, di problemi scientifici, e che in quel periodo ero alla ricerca di materiale per un libro che avevo intenzione di scrivere e intitolato Geni nell’ombra.

— Che specie di libro dovrebbe essere?

Ammisi, con riluttanza, che avrei voluto cominciarlo col racconto della sua vita, posto naturalmente che lui non avesse niente in contrario e desistesse, per una volta, dalla sua avversione per la pubblicità. Il professore non si lasciò commuovere, nemmeno quando gli dissi che sarebbe stato suo dovere verso i posteri. Ma il giorno seguente cambiò idea e si disse disposto ad aiutarmi purché io dedicassi tutto un libro alla sua biografia.

Da quel momento in poi non fece che parlare, parlare e parlare, mentre io prendevo appunti, senza fingere, perché non volevo metterlo in sospetto, e inoltre spesso lui mi invitava a rileggere qualche brano.

Ma non alluse una sola volta ai viaggi nel tempo. Alla fine, presi il coraggio a due mani e dissi: — Professore, è vero che, se non fosse stato per un certo colonnello che una volta fu mandato qui, voi avreste vinto il Premio Nobel?

Lui imprecò per tre minuti in uno stile magnifico, poi mi chiese: — Chi ve ne ha parlato?

— Sapete, professore, mentre eseguivo ricerche presso il Dipartimento della Difesa… non ve ne avevo già parlato?

— No.

— Ecco, in quell’occasione un giovane fisico che prestava la sua opera al Dipartimento mi raccontò la faccenda. Aveva letto il rapporto del colonnello, e dichiarò che se vi avessero permesso di rendere pubblica la vostra scoperta, voi oggi sareste il più famoso fisico vivente.

— Assolutamente vero.

— Ma questo colonnello… non ricordo il nome, ordinò che doveva essere dichiarato segreto di Stato.

— Quel colonnello era un incompetente presuntuoso, incapace persino di trovare il cappello che portava sulla zucca.

— Fu davvero una cosa tremenda dunque che il mondo venisse privato della vostra scoperta, o per lo meno dell’annuncio di essa. So infatti che non potete nemmeno parlarne.

— Uhm!

Quella sera non riuscii a cavargli altro, e mi ci volle una settimana per indurlo a farmi entrare nel suo laboratorio.

Era situato in un edificio che ospitava anche altri laboratori dove altri studiosi eseguivano le loro ricerche, ma lui non aveva mai voluto cedere la sua tana, nemmeno quando s’era ritirato dalla professione attiva, rifiutandosi di dare la chiave a chicchessia e tantomeno di farlo smantellare.