— Bene, ditemi allora come vi chiamate, in che modo siete arrivato qui, e perché andate in giro vestito a quel modo.
— Mi chiamo Danny, ma se devo esser sincero non so come sono arrivato qui, e sicuramente ignoro dove mi trovo. Gli attacchi d’amnesia mi colgono di sorpresa. Quanto al vestito… chiamatelo un’eccentricità personale. Ma anche voi, se è per quello, non scherzate.
— Oh, vi spiego subito. Io e mia moglie ci troviamo qui nella pineta del Circolo Elioterapico di Denver a fare la cura del sole, quindi non c’è da meravigliarsi se siamo così vestiti. Non è previsto l’improvviso ingresso di estranei.
John e Jenny appartenevano a quella categoria di persone cordiali e imperturbabili che non si scompongono davanti a niente. Certo la mia pietosa spiegazione non bastò a convincere John, che avrebbe voluto indagare a fondo, ma Jenny lo costrinse a non farlo. Io insistetti nella mia versione degli attacchi di amnesia e dissi che ricordavo solo di essere stato in una stanza del New Brown Palace di Denver, e poi nient’altro fino al momento in cui ero piombato davanti a loro. Visto che non riusciva a cavarmi altro, John disse: — Bene, molto interessante. Se riuscite a trovare qualcuno che vada a Boulder potete farvi portare fino là, per poi prendere l’autobus per Denver. Però — aggiunse, scrutandomi — se vi porto alla sede del Club, qualcuno si mostrerà sicuramente molto, ma molto curioso.
Tacqui, impacciato, finché non mi venne un’idea. — Sentite — dissi — se mi spogliassi anch’io, credete che susciterei meno curiosità?
— Credo di sì — disse lui.
— Caro — intervenne Jenny — potremmo presentarlo come nostro ospite.
— Uhm… Ma sì! Però bisognerà sapere qualche cosa di più sul suo conto. Ricordate almeno da dove venite?
— Sì, certamente — mi affrettai a rispondere. — Da Los Angeles di California — e mentalmente presi nota di essere cauto: non avrei certo migliorato la mia situazione se mi fossi lasciato sfuggire qualche descrizione della Los Angeles del 2001 invece che di quella del 1970.
— Basta così. Questo è il nostro amico Danny appena arrivato dalla California. Metterò il suo ridicolo vestito nella mia borsa da spiaggia, e così nessuno troverà niente da ridire.
Sistemate così le cose grazie al buonsenso di Jenny, ci avviammo verso la palazzina del Club. Io mi spogliai in una cabina, ed ebbi cura di nascondere il rotolo di filo d’oro sotto il fagotto degli abiti che infilai sotto il braccio. Mentre Jenny andava a rivestirsi nel reparto signore John mi prese da parte e disse: — Ora che siamo soli, non credete di avere qualche spiegazione da darmi?
— John — risposi dopo un momento di esitazione — l’ultima cosa al mondo che vorrei è darvi dei fastidi, credetemi…
— Dunque, dovrei attenermi alla versione amnesia?
Mi trovavo in una situazione insostenibile. John Sutton aveva il diritto di sapere, ma ero certo che non avrebbe creduto la verità, e se l’avesse creduta sarebbe stato ancora peggio, perché inevitabilmente si sarebbe fatta intorno alla mia persona un pubblicità che mi sarebbe riuscita molto dannosa.
— John, se ve lo dicessi non mi credereste — mi decisi finalmente a rispondere.
— Non lo metto in dubbio. Però resta il fatto stranissimo che, di punto in bianco, un uomo casca giù dal cielo proprio davanti a me, senza farsi male. Danny, ho letto parecchi libri di fantascienza ma la realtà è un’altra cosa. Eppure mi trovo davanti a una realtà inesplicabile.
— John, il vostro modo di esprimervi mi dà l’idea che siate avvocato o notaio.
— È vero.
— Ebbene, posso farvi una comunicazione sotto il suggello del segreto professionale?
— Uhm, vorreste diventare mio cliente?
— Sì, se accettate. È probabile che mi occorrano i vostri consigli.
— D’accordo, allora. Fuori il rospo.
— Bene. Vengo dal futuro. Viaggio nel tempo.
Lui rimase in silenzio per parecchi minuti.
— Avevate ragione — disse poi. — Non ci credo. Adesso, mi sembrano molto più plausibili gli attacchi di amnesia.
— Ve l’avevo detto che non mi avreste creduto!
— Diciamo che mi rifiuto di credervi — corresse lui con un sospiro. — Come mi rifiuto di credere nei fantasmi, nella reincarnazione, e in tutte queste diavolerie. Mi piacciono le cose semplici, che si possano capire. Così, come primo consiglio, vi suggerisco di non parlare a nessuno di questo particolare.
— È proprio quello che pensavo di fare.
— Inoltre, fareste bene a distruggere quei vestiti. Vi presterò io qualcosa. Ho qui al circolo una tuta. — Mentre parlava aveva preso in mano un lembo della mia giacca, e senza volerlo la sollevò di quel tanto che gli permise di vedere l’oro nascosto sotto.
— Ehi, che diavolo avete lì?
Ormai era troppo tardi e non mi restava che confidarmi con lui anche su quel particolare. — A voi cosa sembra? — chiesi.
— Oro.
— Infatti.
— Dove l’avete preso?
— L’ho comprato.
— Comperato… legalmente? — indagò lui.
— Vi giuro di sì. E ho intenzione di venderlo a mia volta alla Zecca di Denver, perché non ho denaro contante.
— Voglio credervi, Danny. Ma alla Zecca vi faranno delle domande. Eccovi dunque un altro consiglio: poiché ci sono ancora molti cercatori d’oro, nella zona, dite che si tratta del frutto di lunghi anni di ricerca, altrimenti rischiereste di passare momenti poco piacevoli.
I Sutton rimasero al Club fino al lunedì mattina, e io restai con loro. Avevano un villino nel parco, e gli amici che mi presentarono erano garbati e poco curiosi. John fece una scappata a casa per portarmi un paio di calzoncini e una maglietta, giacché non potevo far la cura del sole in tuta, e dormii su una brandina nello spogliatoio.
Il martedì, John mi accompagnò in città, dove affittai un appartamentino che arredai con tutti gli arnesi necessari al mio lavoro, e mi aiutò a convertire parte dell’oro in moneta sonante. Avevo il tempo misurato, e mi misi immediatamente al lavoro. Era una vera noia doversi servire della squadra a T, e del compasso, così per risparmiare tempo, prima di aggiornare il Servizievole Sergio, progettai Dino Disegnatore. Cambiai naturalmente nome a Sergio, che divenne il Proteiforme Pete, automa tutto fare, con la testa farcita di tubi Thorsen. Sapevo che con gli anni, il Proteiforme Pete si sarebbe ancora perfezionato e i suoi discendenti si sarebbero evoluti in un’orda di congegni specializzati, ma ora come ora dovevo farlo così.
Il lavoro procedeva svelto, perché conoscevo già progetti e disegni, ma non possedendo strumenti né un’officina attrezzata, la realizzazione pratica dei progetti andava forzatamente a rilento. Lavoravo sette giorni alla settimana, dalla mattina alla sera, senza un attimo di riposo, e mi concessi solo un occasionale week-end con John e Jenny al Club. Il primo settembre avevo pronti progetti, disegni e prototipi dei due congegni. Se il lavoro mi stancava aveva però il merito di impedirmi di uscire spesso, perché farmi vedere in giro poteva costituire un pericolo non indifferente, come accadde un giorno quando incontrai al bar il professor Twitchell, e dovetti faticare non poco per evitare di cadere in qualche pericoloso tranello, o quell’altra, quando, essendomi buscato un forte mal di denti, andai da un dentista. Avevo appena aperto la bocca per mostrargli il dente malato, che già mi pentivo della mia imprudenza. M’ero dimenticato di essermi fatto curare due denti… nel 2001!
Il medico era rimasto infatti a bocca aperta anche lui, al vederli, e appena ebbe ritrovato la voce, mormorò:
— Per la barba di Matusalemme! Chi vi ha curato quei denti?
— Co-e di-e?
Lui mi tolse la mano dalla bocca. — Come dite? — ripetei. — Chi mi ha fatto questo lavoretto? Ah, si tratta… di un lavoro sperimentale d’un medico… d’un medico indiano mio amico.