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Ma tutte le volte che mi passava davanti cercando un pertugio attraverso cui infilarsi in casa, e mandando il suo grido di guerra, lo chiamavo piano: — Pete, sono qui. Vieni, Pete. Mettiti calmo, micio.

Lui s’era accorto della mia presenza, perché si voltò un paio di volte a guardarmi, ma per il resto m’ignorò. Coi gatti bisogna fare una cosa alla volta. In quel momento, il mio aveva un’importante faccenda da sbrigare e non poteva perdere tempo a strusciarsi contro le gambe del suo padrone. Ero sicuro che sarebbe venuto da me non appena avesse sistemato i suoi affari.

Mentre aspettavo, sempre accoccolato dietro un cespuglio, sentii l’acqua scrosciare nel bagno di Miles, e immaginai che lui e Belle stessero lavandosi e medicando le graffiature. Allora mi venne un’orribile idea. Che cosa sarebbe successo se fossi entrato e avessi sgozzato il mio corpo impotente? Ma scacciai subito l’idea perché non mi sentivo tanto curioso, e poi il suicidio è un esperimento un po’ troppo decisivo, sia pure in circostanze tanto singolari.

Comunque, per quanto in seguito ci abbia pensato, non sono mai riuscito a trovare una risposta a quella mia domanda.

Oltretutto, in quel momento ero convinto che sarebbe stato troppo pericoloso entrare, perché mi sarei potuto imbattere in Miles, e non volevo aggiungere un cadavere al carico della mia macchina.

Finalmente Pete si decise a fermarsi davanti a me, tenendosi però a una certa distanza. — Mrrrrgnau? — chiese, il che, tradotto, voleva dire: Entriamo a fare piazza pulita di quelle canaglie? Tu li colpisci in alto, io in basso.

— No, caro, lo spettacolo è finito.

— Acc… mrgnau!

— E ora di tornare a casa, Pete. Vieni qui.

Lui si mise a sedere, accingendosi a lavarsi. Dopo un po’, quando sollevò il muso a guardarmi, io fui pronto a tendergli le braccia, e lui fu altrettanto lesto a saltarmi al collo. — Brrr… Brrr — faceva, e voleva dire: Ma dove diavolo ti eri cacciato quando è cominciato il bello?.

Io lo portai in macchina e lo depositai al posto di guida, perché il resto era tutto occupato dai pezzi di Sergio.

Pete annusò i pezzi che avevo sistemato sul posto a fianco, di solito destinato a lui, e si guardò intorno con aria seccata. — Piantala di fare il difficile — gli ordinai. — Per questa volta mi starai in braccio mentre guido.

Aspettai di essere sulla strada prima di accendere i fanali, poi partii a gran velocità per il Lago del Grande Orso e il Campo delle Giovani Esploratrici. Strada facendo seminai nei fossati e nei campo i pezzi di Sergio, e mi fermai per stracciare e gettare in una roggia disegni e progetti. Il pezzo più grosso, cioè lo chassis, lo gettai in un burrone quando fui giunto in montagna. Erano le tre di notte quando entrai nel parcheggio di un motel a un tiro di fucile dal Campo delle Giovani Esploratrici. Quando il custode venne a farsi pagare l’affitto di una stanza per la notte, gli chiesi a che ora arrivava lassù la posta di Los Angeles.

— Gli elicotteri arrivano alle sette e tredici esatte qui sullo spiazzo.

— Bene, allora chiamatemi alle sette, per favore.

— Signore, se riuscirete a dormire fino a quell’ora col chiasso che fanno al campeggio, siete davvero un fenomeno. Comunque, prenderò nota.

Alle otto, io e Pete avevamo fatto colazione, e io mi ero anche sbarbato e lavato. Esaminai attentamente Pete alla luce del giorno e constatai che, salvo un paio di piccole ammaccature, era uscito indenne dalla lotta. Appena pronti, ci avviammo in macchina al campeggio.

Non avevo mai visto tante ragazze in una volta sola, e nelle loro divise verdi parevano tutte uguali. Mentre mi avviavo alla palazzina direttoriale, quelle che incontrai vollero accarezzare Pete, e quelle che non ebbero il coraggio di avvicinarsi, per timidezza, si limitarono a guardarlo ammirate.

Entrai nella palazzina, e l’esploratrice in uniforme che mi accolse non era più ragazzina da un pezzo. Mi trattò con cautela e sospetto, il che del resto era logico dal momento che lei non mi conosceva e che non ero parente diretto di Ricky, e poi aggiunse che le visite avevano luogo dalle sedici alle diciotto.

— Non sono venuto qui per trovare Federica — le dissi — ma perché debbo riferirle una cosa molto importante e urgente.

— Allora scrivete un biglietto, e abbiate la compiacenza di aspettare che le ragazze abbiano terminato l’esercizio di ginnastica ritmica.

— Vi prego — insistetti — ho proprio bisogno di parlare con la bambina.

— Qualche lutto in famiglia? — chiese la mia interlocutrice.

— No, ma sono successe ugualmente cose assai gravi. Scusatemi, signorina, ma posso parlarne solo a Federica.

La donna tentennava, indecisa, quando Pete intervenne nella discussione. L’avevo portato con me, reggendolo nell’incavo del braccio sinistro, com’era sua abitudine stare, perché sapevo che Ricky sarebbe stata felice di rivederlo. Ormai però era stanco di stare in braccio, e dichiarò: — Mrrrgnao!

La donna lo guardò con un sorriso e disse: — Com’è simpatico! Ne ho uno, a casa, che potrebbe essere suo fratello.

— È il gatto di Federica — spiegai solennemente. — Ho dovuto portare anche lui perché… perché era necessario. Non avevo nessuno a cui lasciarlo.

— Oh, poverino! — disse lei, grattandolo con un dito sotto il mento, nella maniera dovuta. Pete gradì il complimento, per fortuna, allungando il collo e chiudendo gli occhi con aria indecentemente compiaciuta. A ogni modo, il suo intervento decise l’istruttrice, la quale un minuto dopo mi disse che potevo aspettare Ricky: — In via del tutto eccezionale — aggiunse, allungando una mano ad accarezzare ancora Pete prima di andare a chiamare la bambina.

Non la vidi arrivare, ma sentii per prima cosa la sua voce gioiosa esclamare: — Zio Danny, che bellezza! — e mentre mi voltavo per abbracciarla: — Oh, hai portato anche Pete! Questo sì che è magnifico!

Pete espresse la sua gioia con un lungo «mmmrrr» e balzò fra le sue braccia. Ricky lo sistemò ben bene nella sua posizione preferita, e per alcuni minuti tutti e due mi ignorarono, scambiandosi i complimenti gatteschi d’uso. Finalmente Ricky alzò la testa, e disse seria: — Zio Danny, sono davvero felice di vederti.

La guardai commosso. Aveva l’angolosità e la goffaggine dei suoi undici anni, ma gli occhi limpidi e sinceri che rivelavano l’intima bontà del suo carattere erano anche una promessa di futura bellezza.

— Sono felice anch’io di rivederti — le risposi con tutta sincerità.

Reggendo Pete con un braccio, Ricky frugò con l’altra mano nella tasca della divisa, e disse: — È strano che tu sia qui, però. Ho ricevuto poco fa una tua lettera… ma non ho ancora fatto in tempo ad aprirla. Mi scrivevi per dire che venivi oggi?

— No, Ricky, ti scrivevo proprio per dirti il contrario. Devo andare via, e restare assente molto tempo… poi ci ho ripensato e ho preferito venirti a salutare di persona.

L’invitai a sedersi, mi sedetti a mia volta, e cominciai a parlare. Ricky aveva deposto la grossa busta sul tavolino in mezzo a noi, e Pete vi saltò su, assumendo una posa statuaria, con la lettera fra le zampe, ronfando di contentezza.

Provai un grande sollievo quando venni a sapere che Ricky era al corrente del matrimonio fra Miles e Belle, perché mi sarebbe stato troppo penoso doverglielo rivelare.

— Oh, lo sapevo — fu il suo commento quando vi accennai con cautela — me l’ha scritto papà — e poi, fattasi improvvisamente grave, aggiunse con voce accorata: — Non voglio più tornare da loro, Danny.

— Senti, Rikki-tikki-tavi, capisco quello che provi, ma come si può fare? Devi tornare a casa. Miles è il tuo papà e tu hai solo undici anni.

— Niente affatto. Non ci sono proprio obbligata — protestò lei, decisa. — Non è mio padre ma solo il mio patrigno, e poi andrò a vivere con la nonna, la mamma della mamma. Siamo già d’accordo che mi deve venire a prendere.