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Il giorno dopo mi rivolsi a un avvocato, che alla fine della mia lunga e particolareggiata esposizione, disse: — Signor Davis, voglio darvi un consiglio che non vi costerà un soldo.

— E cioè?

— Non fate niente.

— Ma…

— Non ci sono ma. So quello che dico. Vi hanno imbrogliato, ma non ne avete la minima prova. Sono stati molto furbi, e non vi hanno tolto il pacchetto azionario, né l’indennità di licenziamento… secondo il contratto, validissimo, che avete con loro.

— Ma non è vero! Io non ho mai avuto un contratto!

— Negate che queste firme siano vostre? No. Mi avete detto poco fa che riconoscete la firma. C’è qualche testimonio che possa provare la verità delle vostre dichiarazioni?

Ci pensai, ma avrei potuto anche farne a meno. Solo Miles e Belle potevano testimoniare che io avevo ragione!

— L’unica cosa alla quale potreste appigliarvi sono le azioni che avete dato in dono. Poiché, come dite, si trattò di un dono di fidanzamento, ora che il fidanzamento è stato rotto potete richiederle. A una condizione, naturalmente, che ci sia una testimonianza di qualsiasi genere con cui possiate provare che quello era un dono condizionato al vostro futuro matrimonio, e che è stata la signorina a rompere il fidanzamento.

Certo, testimoni ne avevo, sempre i soliti due però: Miles e Belle!

— Vedete? Avete soltanto la vostra parola contro la loro, ma loro hanno, in più, un mucchio di carte. Così rischiereste non solo di perdere la causa, ma di finire in manicomio. Vi consiglio quindi di rinunciare a qualsiasi azione legale contro quei due e cercare di dimenticare l’accaduto. Siete giovane e intelligente e potete fare strada lo stesso, a patto che un’altra volta siate più cauto.

Ascoltai solo in parte, e solo in parte seguii i suoi consigli: cercai di dimenticare, e per farlo cominciai a entrare nel primo bar che mi capitò sotto gli occhi.

Quella sera, mentre stavo andando da Miles, ebbi tutto il tempo di rievocare l’accaduto. Da quando l’azienda aveva cominciato a rendere bene, Miles si era trasferito con Ricky in un villino a San Fernando Valley, per sottrarsi all’insopportabile calura del Mojave. Ricky, ne fui felice al pensiero, in quel periodo era al Lago del Grande Orso, a un campeggio di Giovani Esploratrici, così non avrebbe assistito a un litigio fra me e il suo patrigno.

Stavo per uscire dal Sepulveda Tunnel, quando mi venne in mente che prima di andare da Miles avrei fatto bene a mettere in un posto sicuro il mio certificato azionario. Come il gatto che ha avuto la coda chiusa in mezzo alla porta una volta, ero finalmente diventato sospettoso.

Ma come fare? Lasciare il certificato nella macchina? No, poco sicuro, per qualsiasi eventualità.

Avrei potuto spedirlo al mio indirizzo, ma poiché mi toccava spesso cambiare alloggio, esattamente ogni volta che i padroni scoprivano che avevo un gatto, nemmeno quello era uno stratagemma ideale.

Meglio quindi mandarlo a qualche persona fidata. Ma a chi?

Finalmente mi ricordai che c’era qualcuno di cui mi potevo fidare: Ricky.

Quando finalmente uscii dal Tunnel, mi fermai dal primo tabaccaio dove comprai un foglio, due buste, una grande e una piccola, e i francobolli, poi mi misi a un tavolo, e scrissi:

Cara Rikki-tikki-tavi,

quanto ti scrivo deve restare fra te e me. È un segreto, e non devi parlarne a nessuno. Se non mi vedrai più, entro un anno da oggi, ti prego di prenderti cura di Pete…

Non si poteva mai sapere quello che mi sarebbe successo, già stavo per entrare nella tana del lupo, e poi, inconsciamente, ora che gli effetti dell’alcol erano svaniti, non ero più tanto sicuro di volermi sottoporre al Lungo Sonno. Il medico aveva ragione: bisognava comportarsi da uomini, guardare in faccia la realtà.

Così continuai:

E ti prego di portare la busta acclusa, senza dire niente a nessuno, mi raccomando, a un’agenzia della Banca d’America. Consegnala al direttore, e digli di aprirla lui, in tua presenza. Con affetto, ti bacia lo zio Danny.

Poi presi un altro foglio, e scrissi:

3 dicembre 1970 — Los Angeles, California. In pieno possesso delle mie facoltà mentali, e di mia libera volontà cedo le seguenti azioni (e qui aggiunsi i numeri e la descrizione dei miei certificati azionari) alla Banca d’America perche le conservi per Federica Virginia Gentry, con l’incarico di intestarli a suo nome il giorno del di lei ventunesimo compleanno.

E firmai. Le intenzioni erano chiare, né avrei potuto fare di meglio in quella tabaccheria affollata, con un jukebox che mi strillava nelle orecchie. Volevo essere certo che Ricky entrasse in possesso delle azioni, e che Miles e Belle non potessero fare niente per togliergliele. Ma se tutto andava bene, e se decidevo proprio di rinunciare al Lungo Sonno, volevo anche essere sicuro di poter tornare in possesso della busta. Per questo avevo scelto il sistema di cedere le azioni alla Banca, così non dovevo passare attraverso le lungaggini richieste quando si assegnano delle azioni a un minore.

Infilai il certificato nella busta piccola, poi misi questa nella busta più grande, insieme alla lettera. Scrissi l’indirizzo di Ricky, applicai i francobolli e infilai il tutto nella buca appena fuori del negozio. Notai che la levata era prossima, fra quaranta minuti, e risalii in macchina con un sospiro di sollievo. Non tanto per aver messo al sicuro le mie azioni, quanto perché pensavo ormai di aver risolto i problemi che mi tormentavano.

Cioè, non proprio risolto, ma deciso a prenderli di petto, il che era senz’altro più da uomo. Sì, certo, desideravo vedere il 2000… ma quando avrei avuto sessant’anni.

Non c’era fretta. L’avvocato e il medico avevano ragione: ero ancora giovane, nel pieno possesso delle mie facoltà. Perché dare a Miles e a Belle la gioia di togliermi di mezzo?

Intanto, mi sarei preso la piccola soddisfazione di guastare loro la serata.

3

Quando arrivai da Miles, canticchiavo fra me. Non pensavo più a quello che mi aveva fatto quella coppia esemplare, e mentre percorrevo gli ultimi chilometri avevo elaborato un paio di nuovi congegni capaci di farmi diventare milionario. Uno era una macchina da disegno che avrebbe funzionato come una macchina per scrivere elettrica. Calcolavo che negli Stati Uniti ci fossero all’incirca cinquantamila ingegneri chini su un tavolo da disegno, col mal di reni e gli occhi arrossati. Invece con la mia macchina, se ne sarebbero potuti restare comodamente seduti in poltrona a battersi i tasti, e il disegno sarebbe stato eseguito dai martelletti su un cavalletto disposto al di sopra della tastiera. Premendo, poniamo, tre tasti contemporaneamente, sarebbe comparsa una linea orizzontale in un dato punto del foglio, premendone un altro ecco una linea verticale e così via.

Con l’aggiunta di qualche cosa, si potevano fabbricare utili accessori, come un altro cavalletto per ottenere una seconda versione assonometrica del disegno, unico sistema per avere una perfetta immagine prospettica senza nessuna fatica. Il più bello era che avrei potuto creare una macchina simile completamente composta di parti standard, facilmente reperibili in qualsiasi negozio di radio o di fotografia. Un mese per il progetto, altre sei settimane per procurarmi il materiale.

Ma intanto un altro pensiero andava prendendo forma nella mia mente: conoscendo io l’intima struttura del Servizievole Sergio, potevo crearne un esemplare migliore perfezionato, evitando per esempio, in primo luogo, la schiavitù dello chassis ricavato da una poltrona a rotelle così da renderlo molto più maneggevole e meno ingombrante. Sì. Sarebbe stato il mio Proteiforme Pete. Nei disegni e calcoli che Miles mi aveva sottratto non c’era tutto. Avrei potuto battere Miles sulla concorrenza, trovando il modo di vendere il mio Pete a qualche ditta sotto falso nome… Un energico «Miaooo» mi riscosse.