Sette lunedì
uno
I dù òmini che sinni stavano arriparati sutta la tettoia che era stata messa alla firmata, aspittando con santa pacienza l’arrivata della circolare notturna, macari senza acconoscersi si scangiarono un surriseddro pirchì da dintra di un grosso scatolone di cartone arrovisciato in un angolo proveniva un runfuliare accussì forte e persistente che manco una sega elettrica. Un povirazzo, un pizzente certamente, che aveva trovato provisorio riparo al friddo e all’acqua di cielo e che, conortato da quel tanticchia di calore del suo stesso corpo che il cartone tratteneva, aveva addiciso che la meglio era inserrare gli occhi, futtirisinni di lu munnu sanu sanu e bonanotti. Finalmenti la circolare arrivò, i dù òmini acchianarono, ripartì. Di cursa arrivò uno:
«Ferma! Ferma!»
Il conducente sicuramenti lo vitti, ma tirò di longo. L’omo santiò, taliò il ralogio. La prossima corsa sarebbe passata un’orata appresso, alle quattro del matino. L’omo stette a pinsarisilla tanticchia e doppo una scarrica di santiuna addecise di tarsi la strata a pedi. S’addrumò una sicaretta e partì. Tutto ’nzèmmula la runfuliata finì, lo scatolone traballiò e lentamente principiò a spuntare la testa di un pizzente mezzo ammucciata da un cappiddrazzo spurtusato che gli calava finti a supra l’occhi. Stinnicchiato in terra com’era, ruotando la testa, il pizzente desi un’attenta taliata torno torno. Quanno fu certo che nei paraggi non c’era anima criata e che le finestri delle case di fronte erano tutte allo scuro, l’omo, strisciando, niscì dallo scatolone. Parse un serpenti che faciva la muta della pelli. A vidirlo addritta, non dava la ‘mpressioni d’essiri accussì povirazzo: di personale minuto, era ben rasato e portava un vistito cunsumato, ma di buona fattura. L’omo infilò dù dita nel taschino della giacchetta, cavò fora un paro d’occhiali, se l’inforcò, niscì da sotto la tettoia, girò a mano dritta e, fatti manco una decina di passi, si fermò davanti a un cancello inserrato da una catina con un grosso catinazzo. Supra il cancello una granni insegna al neon, ora astutata, diceva: “Ristorante La Sirenetta – Ogni specialità di pesce”. Accomenzò a chiòviri. L’acqua non era fitta, ma bastevole per assuppare. L’omo armiggiò col grosso catinazzo che era più apparenzia che sustanzia, infatti non fece convinta resistenza al grimaldello, raprì mezza latata del cancello, appena quanto bastava per trasire, la richiuse alle sue spalle, rimise a posto la catina, fece scattari il catinazzo. Il vialetto che arrivava fino al portone di trasuta del ristorante era corto e tinuto bono. Però l’omo non se lo fece tutto, a metà girò a mano dritta e si dirigì verso il giardino che c’era darrè il locale e indovi, appena faciva stagione, apparecchiavano minimo minimo una trintina di tavolini. A malgrado dello scuro fitto, l’omo si cataminava con sicurezza, senza addrumare la pila che teneva in mano. L’acqua di cielo lo stava assammarando, ma non ci faceva caso. Anzi, sintiva un calore tale che manco la ‘stati, gli veniva di levarsi la giacchetta, la cammisa, i cazùna e restarsene nudo sutta all’acqua rinfriscante. Vuoi vidiri che gli era acchianata qualichi linea di fevri?
La vasca coi pisci, vanto del locali, era in fondo al giardino, a mano mancina. Il cliente che lo desiderava poteva andare alla vasca e scegliere personalmente il pisci che addesiderava mangiare: fornito di un coppo, doviva piccarselo da sé. Non sempre la cosa arrinisciva agevolmente e allura era tutto un gran ridere, un grosso divertimento, principiava un ioco di allusioni e doppi sensi specie se nella comitiva era presente qualiche fìmmina. Divertimento che in parte s’abbacava alla presentazione del conto, perché era cògnito che in quel ristorante, in quato a prezzi, non ci andavano di lèggio.
Fermo al bordo della vasca, l’omo principiò a murmuriàrisi in una specie di sussurro a un tempo arrangiato e lamentioso. La notti era tanto fitta che non vidiva niente, manco se la vasca era piena o era stata svacantata. Calò a lento una mano dintra alla vasca, assurdamente scantandosi che qualichi pisci, se ancora ci stava, potesse assugliarlo mangiandogli un dito. Incontrò l’acqua gelida, ritirò la mano di scatto. Allora si addecise ad addrumare la pila per un attimo: fu un lampo, ma bastevole a fargli sparluccicare l’argento dei pisci sutta il pelo dell’acqua. Erano tantissimi, I pisci, evidentemente la vasca era stata rifornita la sira avanti. Questo – pinsò – gli avrebbe facilitato la facenna, pirchì lui doviva pigliari un pisci col coppo praticamente alla cieca, dato che la pila meno si adoperava e meglio era. Al di là del giardino e della strata strapiombava un palazzone di una decina di piani, era assai probabile pirciò che qualichi cornuto che pativa d’insonnia, affacciatosi per caso e notata la luce della pila, aviva l’alzata d’ingegno di dare l’allarmi. Si sintiva, ed era, tutto sudato. Si levò la giacchetta che oltritutto l’avrebbe impacciato nei movimenti, la posò su una seggia di plastica e fece fare un altro lampo alla pila.
Di coppi, posati supra il bordo della vasca, ne scorse almeno tri, quegli stronzi dei clienti certe volte si mettevano a fare gare tra di loro, tipo chi perde paga per tutti. Ne pigliò uno, s’agginocchiò vicinissimo al bordo, calò il coppo tenendolo con le dù mano, gli fece descrivere un ampio semicerchio, lo tirò fora. Dal peso si fece capace che non aveva pigliato nenti. Ma volle sincerarsi e lo tastiò. Dintra c’era sulamenti qualichi goccia d’acqua residua. Riprovò altri volte, e ottenne sempre lo stesso risultato.
S’acculò sui talloni, stanchissimo, col sciato tanto grosso che si scantò che lo potevano sintire macari dal mailìtto palazzo vicino. Non potiva perdiri tutto questo tempo, doviva essiri fora dal ristorante almeno una decina di minuti prima che arrivava la circolare delle quattro, di solito affollata di pirsone ancora mezze addrummisciute, certo, ma sempre capaci d’arriconoscere a qualichiduno. Gli venne di fare una pinsata che gli parse bona assà. Tenne il coppo con la mano manca, lo calò, gli fece fare un veloce mezzo giro, ma, prima di finirlo, addrumò la pila che teneva nella mano dritta. Aviva immaginato giusto: una massa di pisci, scappanno, si era concentrata in quella parte della vasca dove non arrivava il giro della rete. Allora si susì, pigliò un altro coppo, si mise in equilibrio sul bordo della vasca, aspettò cinque minuti che i pisci si calmavano e ripigliavano a natare ognuno per conto so’. Trattenne perfino il respiro. Doppo agì. Mentri faciva fare il solito mezzo giro al primo coppo, calò di colpo il secondo a tagliare la strata alla fuitina dei pisci.
Ci arriniscì, sentì che nella rete almeno tri ci erano trasuti da soli. Gettò il coppo vacante, scinnì dal bordo, posò ‘n terra quello coi pisci, addrumò la pila. Distinse subito un grosso cefalo. Sorrise, s’assittò sul bordo della vasca, aspittò che i pisci finissero di dibattersi ammàtula contro la morte. Quanno fu certo che non si cataminavano più, gettati nuovamente in acqua gli altri dù pisci che non gli servivano pirchì erano troppo nichi, stese il cefalo sul bordo, tirò fora dalla sacchetta posteriore dei cazùna una pistola, ci mise il silenziatore, s’infilò la pila addrumata tra i denti e, tenendo fermo il corpo del pisci con una mano, con l’altra gli sparò un colpo, putando l’arma in verticale in modo che la pallottola non lo decapitava ma gli spappolava la testa. Astutò la pila e rimase immobile pirchì il botto, a malgrado del silenziatore, gli era parso che aviva arrisbigliato l’intera Vigàta. Ma non capitò nenti, nisciuna finestra si raprì, nisciuna voce addimannò cosa fosse capitato.
Allora l’omo cercò in una sacchetta dei cazùna, tirò fora il biglietto che si era portato appresso già scritto e l’assistimò sutta al pisci sparato.
La circolare delle quattro della mattina si fece aspittare a longo, arrivò con deci minuti di ritardo.