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 Quanno ripartì, tra i passeggeri assonati c’era macari l’omo che aviva appena assassinato un cefalo.

«Dottore, lei lo conosce il ristorante La Sirenetta, quello che si trova dalle parti del monumento a Luigi Pirandello?» spiò Fazio quella mattina di lunedì, 22 settembiro, trasendo nell’ufficio del commissario Montalbano.

Il commissario era d’umore bono. La jornata avanti aveva fatto friddo e pioggia, ma doppo, a nova matinata, era venuto fora un sole ancora agostano, compensato da un venticello arguto. A taliarlo bene in faccia, macari Fazio pareva privo di mali pinseri.

 «Certo che lo conosco. Ma non c’è da gloriarsene, a conoscerlo. Ci sono andato una volta con Livia, tanto per provare, e m’è bastato e superchiato. Scrùscio di carta e cubàita nenti. Cammareri eleganti, servizio discreto, inappuntabile, posateria lussuosa, conto da infarto, ma quanto al dunque, alla sustanza, servono piatti che parino preparati da un cuoco in stato di coma irreversibile.»

«Io mai ci mangiai.»

«E bene facesti. Perché me ne parli?»

«Pirchì stamatina presto il signor Ennicello, il proprietario, che poi è un lontano parente di me’ mogliere, mi chiamò qua al telefono e mi contò una storia tanto stramma che mi fece pigliare di curiosità. Accussì ci andai. Lo sa che in quel ristorante c’è una vasca piena di pesci vivi che…»

«So tutto, so tutto. Vai avanti. Che capitò?»

«Capitò che stanotti qualichiduno è trasuto nel ristorante raprendo il catinazzo, ha tirato fora un pisci e gli ha sparato un colpo in testa.»

Montalbano lo taliò strammato.

«Ha sparato al pesce?!»

«Sissignore. E doppo, sotto al catàfero… no, alla salma… boh, sotto a quello che è, ci mise un pizzino, quanto un quarto di foglio di carta a quadretti, che sopra c’era scritto qualichi cosa.»

«Che c’era scritto?»

«Questo è il busillisi. Tra la pioggia, l’acqua e il sangue del pisci, l’inchiostro si è sciolto. E il pizzino è diventato fradicio, tanto che quando l’ho pigliato in mano si è come sfarinato.»

«Ma me lo spieghi pirchì uno s’addiverte a fare tutti questi mutupèrii, mettendosi macari a rischio d’essere arrestato, solamente per andare ad ammazzare un pesce?»

«Nonsi, ma gerarchicamente è lei che lo deve spiegare a me.»

«Siete sicuri che gli hanno sparato?»

«Sicurissimi, in terra c’era macari il bossolo. L’ho portato.»

Cercò nella sacchetta della giacchetta, lo tirò fora, lo pruì al commissario che lo pigliò e lo taliò.

«Questo non c’è nicissità di mandarlo alla Scientifica» fece Montalbano a commento, «ci piglierebbero per pazzi. Ha usato una 7,65.»

Gettò il bossolo in un cascione della scrivania.

 «Giusto» disse Fazio. «Secondo mia, dottore, è stato un avvertimento. Viene a dire che 1’amico Ennicello ha saltato qualche rata del pizzo.»

Montalbano gli diede una taliata infastiduta.

«Con tutta l’esperienza che hai, dici ancora queste stronzate? Se non ha pagato il pizzo gli ammazzavano tutti i pesci e per buon peso gli abbrusciavano macari il ristorante.»

«E allora che può essere?»

«Tutto e nenti. Macari una scommissa cretina tra due clienti, una garrusiata…»

«E noi ora che facciamo?» spiò Fazio dopo una pausa.

«Che pisci era?»

«Un muletto granni quanto mezzo braccio mio.»

«Un muletto? Facciamo a capirci, Fazio: il muletto, sino a prova contraria, non è il cefalo?» «Sissi, dottore.»

«E il muletto non è pisci di mare?»

«C’è macari il muletto d’acqua duci. Che a mangiarlo, però, è meno bono di quello di mare.»

«Non lo sapevo.»

«Certo, dottore. A vossia i pisci d’aqua duci ci sdignano. Che devo fare con Ennicello?»

«Te lo dico io cosa devi fare. Torna al ristorante e fatti consegnare il muletto dicendo che ti serve per approfondire 1’indagine. »

«E dopo?»

«Te lo porti a casa e te lo fai cucinare. Te lo consiglio alla griglia, ma la brace non deve essere forte, mi raccomando. Riempigli la panza con rosmarino e tanticchio d’aglio. Condiscilo col salmoriglio. Dovrebbe essere mangiabile.»

Nelle jornate che vennero appresso, in commissariato ci fu il solito trantran, fatta cizzione di tri fatti un tanticchia più impegnativi degli altri.

Il primo fu quanno il ragioniere Pancrazio Schepis, tornato a la so’ casa a ora inconsueta, aviva scoperto la so’ ritogliere, signora Maria Matildina, stinnicchiata completamente nuda supra il letto mentri il famoso “Mago di Bagdad”, al secolo Minnulicchia Salvatore di Trapani, macari lui nudo, “usava il di lui sesso come aspersorio”, siccome scrisse Galluzzo nel suo diligente rapporto. Passato il primo sbalordimento, il ragioniere aviva scocciato il revorbaro ed esploso colpi cinque all’indirizzo del mago fortunatamente pigliandolo solo alla coscia mancina.

Il secunno fu quanno la casa della novantina signora Balduino Lucia venne completamente svaligiata dai latri. Una fulminea indagine di Fazio inequivocabilmente accertò che il latro era uno solo: il nipote della signora Balduino, il sidicino Filippuzzo Dimora, al quale la nonna aviva negato i soldi per accattarsi il motorino.

Il terzo fu quanno tri magazzini di proprietà del vicesinnaco Bartolotta Giangiacomo furono abbrusciati nella stissa notti e la facenna venne catalogata da tutti come un chiaro avvertimento contro certe iniziative del vicesinnaco che passava per essiri uno strinuo combattente antimafia.

Abbastarono dodici ore per accertare che la benzina che aviva dato foco ai magazzini l’aviva accattata l’istisso vicesinnaco.

Insomma, tra una cosa e l’altra, passò una simana.

La notti era scurosa, non si vidiva manco una stiddra, erano tutte cummigliate da nuvole carriche d’acqua. La trazzera era proprio difficoltosa, spuntuna di massi sbucavano all’improvviso dai muretti di pietra, si raprivano buche che parivano voragini. La machina era vecchia e malannata, procedeva a scossoni, affannando. Per di più l’omo ch’era al volante addrumava i fari solo di tanto in tanto, per qualichi secondo, e doppo l’astutava: a quell’ora di notte e su quella trazzera non era facile che passava un’automobile epperciò la meglio era di non fare nasciri curiosità. A occhio e croce doveva mancare picca per arrivare a indovi voliva arrivare. Addrummò gli abbaglianti e a una ventina di metri di distanza, a mano dritta, vitti l’insegna scritta a mano e inchiovata a un palo. L’omo fermò la machina, astutò il motore, raprì lo sportello, scinnì. L’ariata umida e frisca faciva più pungente il sciàuro della campagna. L’omo tirò un  respiro profunno e doppo, le mano in sachetta, principiò a caminare. A mezza strata venne pigliato da un pinsero. Si fermò. Quanto tempo ci aviva messo per arrivare? E se era troppo presto? Sapiva che era partito dal paisi eli picca passate le unnici e mezza, ma non aviva incontrato trafico e non arrinisciva a farsi capace di quanto aviva caminato con la machina. S’arrisolse. Cavò dalla sacchetta la torchia, l’addrummò per la durata di un lampo. Bastevole per vidire l’ora al ralogio che teneva al polso. Era la mezzanotte e deci. La jornata nova era principiata da deci minuti. Tutto a posto. Ripigliò a caminare.

Per sparare, l’omo stavolta non ebbe bisogno di silenziatore. Il botto l’avvertì solo qualichi cane lontano che si fece un’abbaiata senza convinzione, tanto per far vidire che si guadagnava la pagnotta.

Lunedì 29 settembiro Fazio s’appresentò in comissariato verso mezzojorno tenendo in mano un sacchetto di plastica, di quelli tipo supermercato.

«Sei andato a tare la spesa?»

«Nonsi, dottore. Un pollo ci portai. A mia non mi piace. Se lo mangiasse lei, io la simana passata mi sono già sbafato il muletto.»

«Spiegati meglio.»