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— E tuo padre? — chiese. — Cosa farai con lui?

— Saprò cavarmela anche con lui — rispose Alec, sentendo rinascere l'odio.

— Verrà a cercarti non appena saprà che è arrivata la spedizione.

— Lascia che venga — disse Alec. — E se non viene, andrò io a cercarlo.

— E quando v'incontrerete…

Alec strinse i pugni così forte con le unghie si conficcarono nel palmo. — Quando c'incontreremo lo ammazzerò.

Lisa Ducharme Morgan sorrise: — Ripetilo — sussurrò.

— Lo ucciderò — ripeté Alec. — Per tutto quello che ti ha fatto, mamma. Lo troverò e lo ucciderò.

8

Era nato in un fosso lungo la strada che serpeggiava attraverso le colline boscose fra Knoxville, distrutta dai bombardamenti, e Oak Ridge, abbandonata dagli abitanti. Sua madre lo aveva abbandonato in una pozza d'acqua piovana sul fondo melmoso del fosso. L'unico gesto misericordioso che aveva compiuto per lui era stato di strappare con un morso il cordone ombelicale e legarlo. Lui non la vide mai.

Sarebbe morto se una coppia di razziatori non fosse passata di lì poche ore dopo. Sarebbe morto se la donna — in realtà una ragazzina in quanto aveva compiuto da poco i quattordici anni — non avesse perso pochi giorni prima il suo bambino di una settimana: e forse fu proprio per questo che lei notò il neonato; e sicuramente fu per questo che lei lo raccolse, nonostante le proteste del suo compagno che le disse: — Lascialo ai vermi!

Ma lei cominciò a piangere, e l'uomo cedette.

I due stavano seguendo una banda di razziatori, una dozzina fra uomini e donne male in arnese che battevano la campagna raccogliendo e rubando tutto quel che di commestibile, indossabile e commerciabile riuscivano a scovare. La banda aveva poche armi, un capo duro e intelligente esperto nel tendere imboscate, e la disperazione della fame. I due avevano cercato di unirsi alla banda, ma erano stati brutalmente scacciati e minacciati di morte se mai si fossero avvicinati troppo. Così si tenevano a distanza, ma seguivano gli spostamenti della banda contentandosi di quello che i banditi lasciavano o dimenticavano. Il che non era molto. Quando la banda assaliva una fattoria o un villaggio, bruciava tutto quello che non riusciva a portare via.

— Sua mamma dev'essere una di loro — disse la ragazza.

— Forse il suo uomo non voleva avere il peso di un neonato, e l'ha costretta ad abbandonarlo.

L'uomo annuì e borbottò qualcosa fra sé. Dare da mangiare a una bocca in più gli pesava. Inoltre il pianto del bambino li obbligava a seguire la banda ancora più da lontano.

Un giorno si allontanò — era passato poco più di un anno — mentre le piogge autunnali cominciavano a spogliare gli alberi. Due settimane dopo la ragazza lo trovò inchiodato a un albero, col ventre squarciato. Dall'espressione della faccia si capiva che l'avevano sottoposto a quella tortura mentre era ancora vivo.

Lei smise di vagabondare e costruì una rozza capanna di sterpi e fango per sé e il bambino. Quell'inverno rischiarono di morire di fame; solo le sue furtive incursioni fra le rovine della periferia di Knoxville li salvarono. La ragazza si arrischiava ad andarci per pura disperazione. Infatti tutti sapevano che case e strade nascondevano insidie mortali. Una morte invisibile aleggiava sulle rovine. Ma lei sgattaiolava nell'ombra, di notte, per prendere le scatolette di cibo sugli scaffali dei negozi abbandonati: cibo che altri non osavano toccare per paura. Una leggenda, forse non creduta ma comunque temuta, diceva che tutto quello che si trovava nelle città era pericoloso, inquinato, "avvelenato". Ma, a volte, la fame e la disperazione la vincono sulle leggende.

Quando il bambino raggiunse i sei anni, lei era già rosa dal cancro. Tirò avanti per altri quattro anni, fra inaudite sofferenze che le deformavano il corpo in modo orribile. Il bambino la seppellì e poi affrontò il mondo con le sue sole forze. Era magro, con la faccia smunta e sapeva solo correre e nascondersi nei boschi.

Dopo avere vissuto per alcuni mesi in completa solitudine, catturando piccoli animali selvatici ed evitando ogni contatto umano, fu catturato da una banda di ragazzi che si era staccata dall'altra, più numerosa, di adulti, e andava in giro a caccia di cibo, divertimento e donne. Quando lo trovarono, aveva un paio di conigli infilati nella cintura dei calzoncini strappati. Il loro primo impulso fu di prendere i conigli e di arrostirlo insieme a loro sul fuoco. Ma il capo, più maturo della sua età, chiese al ragazzetto sparuto come avesse catturato i conigli.

Una volta resisi conto della sua esperienza nel cacciare e sopravvivere nei boschi, lo accolsero nella banda. Fu battezzato "Furetto", in parte per l'aspetto e in parte perché si muoveva furtivamente, ma soprattutto perché uccideva la selvaggina azzannandola alla gola.

E Furetto rimase. A vent'anni era il vicecapo della banda, che ora si componeva di una cinquantina di individui, fra uomini e donne, ed era la banda più temuta delle colline boscose che circondavano Oak Ridge.

La stazione spaziale ruotava in modo da mantenere la gravità a un regolare g. Negli ultimi cinque anni, Alec aveva trascorso almeno un'ora al giorno nella grande centrifuga dell'istallazione lunare, dove il suo peso aumentava sei volte. I muscoli, fatti per la Terra, rispondevano a un g di gravità senza fatica.

Ma qui sulla stazione spaziale, dopo quasi un mese di gravità sei volte superiore a quella della Luna, cominciò a preoccuparsi. La mattina si svegliava stanco e indolenzito. Gli doleva la schiena, il sangue gli rombava nelle orecchie dopo la minima fatica come salire le scale che dal ponte-dormitorio portavano all'osservatorio.

Fortunatamente l'osservatorio si trovava nel mozzo della grande ruota, dove la gravità era zero. Alec si faceva un punto d'onore di restarci il meno possibile: sarebbe stato fin troppo facile consentire al corpo indolenzito di prevalere sulla volontà.

Kobol era già nell'osservatorio quando Alec vi entrò attraverso il portello del pavimento. Stava seduto davanti a un oblò, con la cintura di sicurezza affibbiata in vita, e guardava attraverso un telescopio inserito nella paratia.

L'osservatorio aveva forma circolare ed era dotato di quattro oblò disposti a distanza regolare intorno al perimetro. Il pavimento era quasi interamente occupato da una serie di schermi e di quadri-comando disposti a ferro di cavallo, dove tre tecnici prestavano servizio a turno alle apparecchiature che sorvegliavano la Terra.

Alec risalì fluttuando senza peso e con una spinta del piede richiuse il portello. La spinta lo mandò verso una consolle. Alec ne afferrò il bordo, si diede un'altra spinta e fluttuò verso un oblò.

La vista della Terra così vicina lo lasciò senza fiato. Un'enorme immensità curva, azzurra, striata di bianco abbagliante, in continuo mutamento gli scorreva davanti attraverso gli oblò dell'osservatorio, coi colori che si avvicendavano, e nuove diverse composizioni si offrivano ai suoi occhi attoniti. È così grande!, pensò Alec. E così…viva.

— Quella è la costa orientale del Nordamerica — disse Kobol. La sua voce, simile al suono acuto di un flauto, troppo raffinata per essere sgarbata, aveva però il timbro annoiato di chi deve dare una spiegazione a un ignorante.

— Lo so — ribatté brusco Alec. — È la nostra prima meta.

— Guarda al telescopio, l'ho collegato col mio.

Alec si mise a sedere sul seggiolino girevole e si chinò per guardare dal telescopio alla sua destra.

— Nuvole… — borbottò Kobol.

Attraverso uno squarcio nel biancore, Alec scorse alcune ondulazioni brune e verdi simili a un torrente di lava rappresa sul bordo di una catena montuosa. Ma qui non c'erano crateri. Quelle ondulazioni erano creste impervie alte centinaia di metri. Così almeno gli avevano detto.

— Là… nella spianata…

Alec scorse una specie di X obliqua, grigia.