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— Quello è l'aeroporto — disse Kobol mentre le nuvole tornavano a coprire il panorama. Alec si staccò dal telescopio, e si voltò verso di lui. — Il complesso di Oak Ridge — stava spiegando Kobol — dista pochi chilometri dall'aeroporto. Se è ancora intatto troveremo materiali fissili grezzi e raffinati sufficienti per almeno cinquant'anni.

Alec annuì, poi si diede una spinta e arrivò alla consolle. — Attività nella zona? — chiese al tecnico seduto nella sedia di mezzo.

— Non molto… per lo meno a quanto possiamo vedere. Niente veicoli, ovviamente, e neanche fuochi o segni di vita rilevabili con gli infrarossi. La zona è boscosa, non credo che si riescano a distinguere le persone che vi si possono trovare, tanto più che non dovrebbero essere molte.

— Siamo in grado di far fronte a un numero esiguo di malviventi. Voi state all'erta. Cercate di scoprire se in quella zona si aggirano gruppi più numerosi.

Il giovane sorrise: — Sissignore.

Il sorriso irritò Alec. Avrà un anno o due meno di me, ma io sono il capo, per ordine del Consiglio, e lui mi chiama "signore". Non avrebbe sorriso così a Kobol.

Poi si accorse che Kobol lo fissava impassibile al di sotto delle folte sopracciglia e, sempre più irritato, si spinse fino al portello, e lasciò l'osservatorio.

— E io dico di andare adesso!

Si trovavano nella piccola sala mensa della stazione spaziale, che serviva anche per le riunioni. Nell'angusto locale dalle pareti metalliche c'erano solo quattro tavoli, e a quell'ora della notte gli altri tre erano vuoti.

Seduti intorno al tavolo insieme ad Alec, c'erano Kobol, Ron Jameson e Bernard Harvey. Jameson era uno dei pochi militari di carriera della base lunare, esperto in armamenti e tattica, che prestava servizio sulla Luna già da vent'anni quando si era verificata l'esplosione solare. Dopo di allora aveva preso parte a tutte le spedizioni che erano scese sulla Terra, e adesso aveva la funzione di aiutante di campo, col compito di tradurre i progetti strategici in ordini per gli uomini. Era alto, freddo, asciutto, con occhi grigi risoluti e naso aquilino in una faccia magra da cacciatore. Era un uomo che ben difficilmente si lasciava prendere dal panico. Harvey invece era un Consigliere dalla faccia tonda e molliccia, che sarebbe tornato alla base appena la spedizione fosse atterrata.

— Ma secondo il progetto dovreste partire fra tre settimane — obiettò Harvey.

Kobol unì la punta della dita portandosi le mani davanti alla faccia: — Allora saranno finite le piogge primaverili, il terreno si sarà asciugato e sarà molto più facile attraversare la campagna — disse.

— Se atterriamo all'aeroporto — ribatté Alec — dovremo percorrere solo un paio di chilometri su strada asfaltata. Potremo andare e tornare nel giro di una nottata.

— Ma i piani di battaglia…

— Ron, cosa dicono i piloti? — chiese Alec a Jameson.

— Preferirebbero l'aeroporto. Abbiamo puntato le sonde al massimo ingrandimento sul campo di aviazione come hai suggerito tu. Le piste sono in pessimo stato, ma c'è spazio a sufficienza per le due navette. E comunque è più sicuro l'aeroporto che qualsiasi atterraggio in aperta campagna.

— All'aeroporto le navette saranno come bersagli fissi — obiettò Kobol. — È così che ne abbiamo persa una, l'ultima volta.

— C'è qualche segno della presenza di bande di barbari nella zona? — chiese Alec.

Jameson fece un cenno di diniego.

Battendo l'indice sul tavolo per dare maggiore vigore alle parole, Alec disse: — Le piogge primaverili costringono gli indigeni a starsene chiusi nelle loro tane. Impediscono che si spostino. Fra tre settimane invaderanno le foreste e noi dovremo farci strada combattendo all'andata e al ritorno. Adesso gli unici indigeni presenti eventualmente nella zona sono i locali, e questi non costituiscono una grave minaccia. Inoltre non conta dove atterreremo. Le navette saranno vulnerabili ovunque.

Kobol restò impassibile. Harvey invece era turbato.

— Se andiamo adesso — insisté Alec — atterrando all'aeroporto, possiamo compiere la missione in un paio di giorni al massimo, prima che le orde dei barbari abbiano il tempo di riunirsi e di raggiungerci.

— Ma questo non è il progetto approvato dal Consiglio — protestò Harvey. — È il tuo…

— Il Consiglio mi ha dato il comando, e io decido di partire adesso. Domani, se è possibile. Al massimo dopodomani.

— È un errore — asserì con voce pacata Kobol.

— Può darsi — ribatté Alec. — Ma è uno sbaglio mio.

Rimasero seduti nella luce azzurrina dei tubi fluorescenti senza parlare per qualche istante.

— Va bene — disse poi Alec. — È deciso. Ron, per favore, voglio che gli uomini siano pronti a imbarcarsi al più presto. Informa i piloti e gli addetti alla manutenzione.

Jameson annuì.

Poi, rivolgendosi ad Harvey, Alec continuò: — Se vuoi, puoi riferire al Consiglio.

— Credo che dovrò farlo — disse Harvey visibilmente turbato.

Alec si alzò, salutò con un cenno e lasciò la mensa. Il corridoio principale della stazione era immerso nella penombra notturna. Mentre si avviava verso il suo alloggio, Alec esultava: l'aveva spuntata!

Ci vollero due giorni. Due giorni per controllare le armi, le apparecchiature, gli indumenti e i viveri occorrenti. Due giorni di attenta osservazione delle condizioni meteorologiche del Nordamerica, culminanti con la previsione che a Oak Ridge il tempo sarebbe stato asciutto e limpido. Due giorni di frenetiche comunicazioni fra la stazione spaziale e la base lunare. Gli uomini, prima convinti di avere ancora tre settimane a disposizione, ora disponevano di sole quarantott'ore per comunicare con parenti e amici. Richieste di informazioni da parte del Consiglio. Dati tecnici forniti alla stazione dal computer principale della base. Due giorni di vaccinazioni e controlli medici. Alec rimandò il suo all'ultimo momento, quando tutto era ormai già pronto.

I cinquanta uomini, preceduti dai quattro piloti, si avviarono verso le due navette scivolando lungo gli stretti tunnel d'accesso che collegavano il mozzo della stazione spaziale ai portelli delle aeronavi. Prima salirono a bordo i piloti, in tuta blu, poi i militari, che parevano spaesati nell'uniforme colore oliva e l'elmetto di metallo, coi pesanti zaini sulla schiena e le armi a tracolla.

Alec, galleggiando nell'ambiente privo di gravità davanti al portello principale della stazione, sorvegliava l'imbarco degli uomini che gli sfilavano davanti silenziosi e cupi in volto. L'unico rumore era lo struscio degli stivali. Quando infine l'ultimo fu inghiottito dal tunnel Alec vi entrò a sua volta dandosi una spinta e salì sulla navetta.

Ventiquattro uomini stavano affibbiando le cinghie dei sedili. Zaini e armi erano stati stivati in un altro locale. Alec si soffermò un momento sulla soglia. Aveva ispezionato una dozzina di volte le navette nel corso delle ultime settimane, ma questa era la prima volta che ne vedeva una con uomini a bordo da quando erano arrivati sulla stazione spaziale. I caratteristici odori di plastica e ozono erano sopraffatti dall'odore di sudore e di lubrificante per le armi. Mentre si avviava verso il doppio sedile vuoto a prua del compartimento passeggeri, Alec si rese conto con una stretta al cuore di quanto fossero vecchie le navette. Il pavimento di plastica era logoro, le pareti di metallo così sverniciate da sembrare quasi levigate. Le navette erano state costruite molto tempo prima dell'esplosione solare, e i tecnici lunari avevano provveduto alla loro manutenzione con una cura che rasentava la fede.

Sono il nostro legame con la Terra, pensò Alec. E il nostro unico mezzo per tornare a casa.

Fermandosi nella corsia accanto al sedile sfilò il pesante zaino, chiedendosi se avrebbe dovuto dire qualcosa ai suoi uomini. Sapeva che molti avrebbero preferito che fosse Kobol a guidare la spedizione, e molti avevano criticato anche pubblicamente la sua decisione di anticipare la partenza.