«Buona sera, Nikolaj Stepanyč. Vi chiamo il vetturino?» propose il custode con un inchino.
«Ebbene, Mitric, non ha ancora smesso di piovigginare?» chiese il brufoloso con una vocetta sottile. «Allora vado a piedi, seduto ci sono stato anche troppo.»E con due dita biancoguantate lasciò cadere una monetina nella mano tesa.
«E quello chi è?» chiese con un sussurro Erast Petrovič guardando con attenzione spasmodica la schiena del bellimbusto. Non è un po’ gobbo?
«Achtyrzev Nikolaj Stepanyč. Un riccone di prima classe, di sangue principesco», gli comunicò deferentemente Mitric. «Non mi getta mai meno di quindici copechi.»
Notizia che rese Fandorin febbricitante. Achtyrzev! Non sarà mica quello indicato nelle ultime volontà come esecutore testamentario!
Mitric si inchinò all’ennesimo insegnante, un docente di fisica coi capelli lunghi, e quando si rigirò, lo attendeva una sorpresa: il rispettoso provinciale era sparito come se l’avesse inghiottito la terra.
Il nero soprabito di velluto era visibile da lontano, e Fandorin raggiunse in due secondi il suo sospetto, senza decidersi però a chiamarlo: che pretese avrebbe mai potuto avanzare verso questo Achtyrzev? Mettiamo pure che lo riconoscessero il commesso Kukin, e anche la signorina Pful (qui Erast Petrovič sospirò gravemente ricordandosi, per l’ennesima volta, di Lizanka). E con questo? Non sarebbe stato meglio, in base alla teoria del grande Fouché, imbattibile corifeo degli investigatori, attuare il pedinamento dell’oggetto in questione?
Detto fatto. Tanto più che pedinarlo si rivelò tutt’altro che difficile: senza la minima fretta Achtyrzev, a passo di diporto, procedeva in direzione di via Tverskaja senza mai voltarsi indietro, solo di tanto in tanto accompagnava con lo sguardo certe graziose midinette. Alcune volte Erast Petrovič, imbaldanzitosi, si era fatto inavvertitamente così vicino allo studente da sentirlo fischiettare l’aria di Smith da La bella di Perth. A quanto pareva il mancato suicida (se davvero era lui) si trovava nel più allegro degli umori. Vicino alla tabaccheria Korf lo studente si fermò ed esaminò a lungo la vetrina con le scatole di sigari, senza però entrare. In Fandorin cominciò a farsi strada la convinzione che il suo «oggetto» volesse ammazzare il tempo fino a una certa ora. Convinzione che si rafforzò allorché Achtyrzev estrasse l’orologio d’oro, ne aprì il coperchio con uno scatto e, accelerando sensibilmente il passo, salì sul marciapiede passando all’esecuzione del più deciso «Coro dei fanciulli» della Carmen, opera allora di moda.
Dopo avere svoltato nel vicolo Kamergerskij, lo studente smise di fischiettare e prese a camminare con passo così veloce che Erast Petrovič si vide costretto a restargli indietro per non avere un’aria troppo sospetta. Per fortuna, senza arrivare fino al salone di mode per signora D’Arzance, il suo «oggetto» rallentò il passo, e ben presto si fermò del tutto. Fandorin attraversò la strada e occupò la postazione accanto alla panetteria, fragrante degli aromi della pasta fresca.
Per una quindicina di minuti, forse anche venti, Achtyrzev, manifestando un nervosismo vieppiù evidente, passeggiò davanti alle porte di quercia intagliata in cui entravano di continuo signore affaccendate e da cui i fattorini uscivano portando eleganti pacchi e scatole. Lungo il marciapiede sostava in attesa un certo numero di carrozze, alcune perfino munite di stemmi sugli sportelli laccati. Alle due e diciassette minuti in punto (Erast Petrovič lo notò sull’orologio della vetrina) lo studente ebbe un fremito e si lanciò incontro a una signora snella con la veletta che stava uscendo dal negozio. Toltosi il berretto, prese a dire qualcosa agitando le braccia. Ostentando un’aria annoiata Fandorin attraversò il marciapiede, perché no, magari poteva interessare anche a lui dare un’occhiata a D’Arzance.
«Adesso non ho tempo per voi», furono le parole che udì pronunciare dalla voce cristallina della signora, vestita all’ultima moda parigina, con un abito di moire lilla e lo strascico. «Più tardi. Venite alle otto, come al solito, decideremo tutto lì.»
Senza più degnare di un’occhiata l’emozionato Achtyrzev, lei si diresse verso il suo phaeton scoperto a due posti.
«Ma Amalia! Amalia Kazimirovna, scusate!» le gridò dietro lo studente. «Io in un certo senso avevo contato su una spiegazione in privato!»
«Dopo, dopo!» buttò lì la signora. «Adesso ho fretta!»
Una lieve brezza le sollevò dal viso la leggerissima veletta, e Erast Petrovič impietrì. Quei languidi occhi notturni, quell’ovale egizio, la piega capricciosa delle labbra, li aveva già visti, e un viso del genere, una volta notato, non si dimentica più. Ecco chi era, quella misteriosa A. B., che aveva proibito allo sventurato Kokorin di rinnegare il suo amore! La faccenda, a quanto pareva, stava prendendo tutt’altro senso e colore.
In preda allo smarrimento, Achtyrzev restò fermo sul marciapiede incassando sgraziatamente la testa fra le spalle (è curvo, decisamente curvo, si convinse Erast Petrovič), e nel frattempo il phaeton si portò via senza fretta la regina egizia in direzione di via Petrovka. Bisognava prendere una decisione, e Fandorin, ritenendo che a questo punto lo studente non gli sarebbe comunque sfuggito, lo lasciò perdere, e andò di corsa verso l’incrocio con via Bolšaja Dmitrovka, dove era parcheggiata una fila di carrozze a nolo.
«Polizia», sussurrò al vetturino assonnato con berretto e caffettano imbottito. «Su, svelto, dietro a quella carrozza! Ma muoviti! E non temere, sarai ben pagato.»
Il vetturino montò in serpa, si rimboccò le maniche con zelo esagerato, scosse le redini, e pure gridò, al che il cavallo pezzato prese a battere rumorosamente gli zoccoli sull’acciottolato.
All’angolo di via Roždestvenka si imbatterono in un barrocciaio stracarico di tavole che, trascinandosi nel bel mezzo della strada, sbarrava l’intero passaggio. Erast Petrovič, in preda a un’agitazione estrema, saltò su e si mise perfino in punta di piedi per inseguire con lo sguardo il phaeton che invece era riuscito a passare. Se non altro lo vide svoltare in via Bolšaja Lubjanka.
Niente di grave, Dio è clemente, e il phaeton fu raggiunto all’altezza di via Sretenka giusto in tempo, proprio nel momento in cui stava per eclissarsi in un vicolo stretto e curvo. Le ruote tremavano per le buche. Fandorin vide che il phaeton stava per fermarsi e diede un colpo nella schiena al vetturino: su, sorpassalo, non tradirmi. Si voltò apposta dall’altra parte, ma con la coda dell’occhio vide, davanti a una linda palazzina in muratura, un uomo in livrea che, inchinandosi, veniva incontro alla signora in lilla. Alla prima svolta Erast Petrovič licenziò il vetturino e lentamente, facendo vista di fare due passi, tornò nella direzione opposta. Ecco la palazzina: adesso poteva esaminarla come si deve: un mezzanino dal tetto verde, tendine alle finestre, la scossalina all’ingresso principale. Ma non era dato vedere nessuna targhetta di bronzo sulla porta.
In compenso su una panchina vicino al muro stava seduto con aria annoiata uno spazzino col grembiule e il berretto gualcito. Erast Petrovič gli si avvicinò. «E dimmi un po’, fratello», prese a dirgli come en passant, togliendosi di tasca una delle monetine da venti copechi del suo fondo spese. «Di chi è questa casa?»
«Lo sanno tutti di chi è», gli rispose oscuramente lo spazzino guardando con interesse le dita di Fandorin.
«Tieni. Chi è quella signora che è entrata poco fa?»
Presa la moneta, lo spazzino rispose gravemente: «La casa appartiene alla generalessa Maslova, solo che non ci abita, la dà in affitto. E quella che è arrivata è l’inquilina, la signora Bežezkaja, Amalia Kazimirovna».