«E chi sarebbe?» insistette Erast Petrovič. «Ci abita da tanto? Ci viene molta gente?»
Lo spazzino lo guardò in silenzio masticando qualcosa. Il suo cervello era impegnato in un qualche incomprensibile lavorio.
«Sai che ti dico, signore», disse lui alzandosi, e all’improvviso agguantò fermamente Fandorin per la manica. «Vieni un po’ qui.»
Trascinò verso l’ingresso Erast Petrovič che opponeva resistenza e tirò la linguetta del campanellino di bronzo.
«Ma che stai facendo?» chiese inorridito l’investigatore cercando invano di liberarsi. «Ma io a te… Ma lo sai almeno chi è che hai davanti?!»
La porta si spalancò, e sulla soglia comparve uno spilungone in livrea con enormi favoriti brizzolati e il mento rasato: si vedeva subito che di sangue non era russo.
«Così se ne vengono qui a chiedere di Amalia Kazimirovna», riferì con voce melliflua l’infame spazzino. «E offrono pure denaro. Non ho preso nulla. Così io, John Karlyč, ho pensato…»
Il maggiordomo (doveva essere per forza un maggiordomo, visto che era inglese) squadrò l’arrestato con lo sguardo impassibile dei suoi occhietti pungenti, porse in silenzio a quel Giuda mezzo rublo d’argento e si fece un po’ da parte.
«Ma qui c’è il più totale malinteso!» disse Fandorin che non sapeva più che pesci prendere. «It’s ridiculous! A complete misunderstanding!» aggiunse passando all’inglese.
«Eh no, vogliate favorire, prego», gli ululò dietro lo spazzino e, agguantato Fandorin anche per la seconda manica per essere più convincente, lo spinse dentro.
Erast Petrovič si ritrovò in un ingresso piuttosto spazioso, direttamente di fronte a un orso impagliato che reggeva un vassoio d’argento per metterci i biglietti da visita. Gli occhietti vitrei del bestione peloso guardavano il giovane, piombato nella più grande confusione, senza la benché minima partecipazione.
«Nome? Motivo?» chiese laconicamente, con un forte accento, il maggiordomo, senza badare affatto all’inglese perfettamente rispettabile di Fandorin.
Erast Petrovič taceva, fermamente intenzionato a non svelare il suo incognito.
«What’s the matter, John?» echeggiò la voce cristallina già nota a Fandorin. Sulla scala rivestita di moquette, che probabilmente portava al mezzanino, si trovava la padrona di casa, che nel frattempo si era tolta cappello e veletta.
«Aha, quel giovane bruno», disse lei in tono beffardo rivolgendosi a Fandorin che la divorava con gli occhi. «Vi avevo già notato nel vicolo Kamergerskij. Sta forse bene piantare gli occhi addosso a delle signore sconosciute? Furbo lui, non dice nulla. Mi ha seguita! Chi siete, uno studente o uno sfaccendato?»
«Fandorin, Erast Petrovič», si presentò lui senza sapere che altro dire, ma quella Cleopatra aveva già interpretato a suo piacimento la comparsa del nuovo venuto.
«Ho un debole per gli audaci», disse ridendo. «Specie se sono così carini. Però spiare non sta bene. Se la mia persona vi interessa a tal punto, venite stasera; ne viene di gente da me. Così potrete soddisfare appieno la vostra curiosità. Ma mettetevi il frac, da me ci si comporta con disinvoltura, ma chi non è militare deve venire assolutamente in frac, questa è la regola.
Verso sera, Erast Petrovič era armato di tutto punto. È vero che il frac paterno gli andava un po’ largo di spalle, ma l’ottima Agrafena Kondratevna, la moglie di un piccolo funzionario che gli affittava la cameretta, glielo aveva ristretto lungo la cucitura con delle spille di sicurezza, e il risultato era perfettamente presentabile, soprattutto se Fandorin non lo abbottonava. Il vasto guardaroba, dove di soli guanti bianchi ce n’erano cinque paia, era l’unico bene ereditato dal figlio del malcapitato investitore bancario. I pezzi più belli di tutti erano il gilet in seta (ditta Bourges) e le scarpe di vernice (Piron). Non era niente male nemmeno il cilindro Blanc seminuovo, a parte il fatto che un po’ gli scendeva sugli occhi. Ma si trattava di un’inezia; gli serviva solo per darlo al guardaportone, e con questo la faccenda era risolta. La canna da passeggio Erast Petrovič decise di non prenderla, a volte facesse mauvais ton. Si rigirò nel buio ingresso davanti allo specchio chiazzato e restò soddisfatto di sé, soprattutto dei fianchi, cinti magnificamente dal severo busto «Lord Byron». Nel taschino del gilet posava il rublo d’argento datogli da Ksaverij Feofilaktovič per il bouquet («elegante ma senza strafare»). Come se si potesse strafare con un rublo, pensò sospirando Fandorin, e decise di aggiungervene un altro mezzo del suo, così gli sarebbe bastato per le violette di Parma.
Per via del bouquet gli toccò fare a meno della vettura, e al palazzo di Cleopatra (soprannome calzante per Amalia Kazimirovna Bežezkaja più di qualsiasi altro) Erast Petrovič si presentò solo alle otto e un quarto.
Gli altri ospiti c’erano già tutti. Accolto dalla cameriera, già dall’ingresso il giovane udì il boato di numerose voci maschili, di tanto in tanto gli arrivava tuttavia anche quella, intessuta d’argento e cristallo, magica. Erast Petrovič rallentò impercettibilmente il passo sulla soglia, poi si fece coraggio ed entrò con una certa disinvoltura, nella speranza di produrre l’impressione di un consumato uomo di mondo. Sforzo inutile: nessuno si girò a guardare il nuovo venuto.
Fandorin vide un salotto con comodi divani in marocchino, poltroncine di velluto, tavolinetti eleganti, il tutto con molto stile e secondo il gusto contemporaneo. Al centro, su una pelliccia di tigre stesa ai suoi piedi, c’era la padrona di casa, con un abito di foggia spagnola, con un vestito vermiglio a corpetto e una camelia scarlatta nei capelli. Era talmente bella che Erast Petrovič si sentì mancare il respiro. Non esaminò subito gli ospiti, notò soltanto che erano tutti uomini, e che c’era anche Achtyrzev, seduto poco distante e assai pallido in viso.
«Ecco qui la mia nuova conquista», annunciò la Bežezkaja guardando con aria beffarda Fandorin. «Adesso ne ho esattamente tredici, uno di più degli apostoli. Non vi presenterò tutti, prenderebbe troppo tempo, ditemi però il vostro nome. Ricordo che siete uno studente, ma il cognome l’ho dimenticato.»
«Fandorin», squittì Erast Petrovič, e la voce gli tremò a tradimento, lo ripetè quindi ancora una volta, con tono più fermo. «Fandorin.»
Si voltarono tutti a guardarlo, ma in un lampo: lo sbarbatello nuovo arrivato non poteva interessare a nessuno. Ben presto fu chiaro che in quella società il centro di ogni interesse era uno soltanto. Gli ospiti quasi non conversavano l’uno con l’altro, si rivolgevano principalmente alla padrona di casa, e tutti, perfino un vecchietto dall’aria importante con la croce di brillanti, si interrompevano a vicenda cercando di ottenere una sola cosa — di attirare su di sé la sua attenzione e oscurare sia pure per un istante gli altri. Solo due si comportavano altrimenti — il taciturno Achtyrzev, che non faceva che sorseggiare champagne da una coppa, e un ufficiale degli ussari, un giovane rubicondo dagli occhi forsennati, un poco sporgenti e un sorrisone denti bianchi e baffi neri. Costui aveva l’aria di annoiarsi tremendamente e quasi non guardava Amalia Kazimirovna, mentre esaminava con un sorrisetto sprezzante gli altri ospiti. Cleopatra non nascondeva di aver riguardi speciali per quel bellimbusto, che chiamava semplicemente Ippolit, e un paio di volte scagliò in sua direzione una tale occhiata, che il cuore si strinse dolorosamente in petto a Erast Petrovič.
All’improvviso trasalì. Un certo signore glabro con la croce di diamanti sulla cravatta aveva appena detto, approfittando di una pausa: «Amalia Kazimirovna, l’altro giorno ci avete proibito di spettegolare a proposito di Kokorin, io però ieri ho saputo una cosa curiosa».