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Tacque, soddisfatto dell’effetto suscitato: si erano voltati tutti dalla sua parte.

«Non fateci penare, Anton Ivanovič, parlate», proruppe un ciccione dalla fronte bombata, a giudicare dall’aspetto un avvocato di successo.

«Davvero, non fateci penare», ripeterono gli altri.

«Non si è sparato così alla buona, ma l’ha fatto con ‘la roulette americana’; me lo hanno sussurrato oggi nella cancelleria del governatore generale», comunicò con aria grave il glabro. «Sapete cos’è?»

«Lo sanno tutti», disse Ippolit alzando le spalle. «Prendi la rivoltella, ci metti una sola cartuccia. È una stupidaggine, però eccita. Peccato ci abbiano pensato gli americani, e non i nostri.»

«E cosa c’entra la roulette, conte?» chiese il vecchietto con la stella che non aveva capito.

«Pari o dispari, rosso o nero, purché non sia grigio!» strillò Achtyrzev ridendo in modo innaturale, guardando Amalia Kazimirovna con aria di sfida (così almeno sembrò a Fandorin).

«Vi ho avvertiti: chi si mette a parlare di questo lo butto fuori!» disse la padrona di casa arrabbiandosi di brutto. «E gli sarà vietato l’ingresso in casa mia una volta per tutte! L’avete trovato l’argomento per spettegolare!»

Si creò un silenzio penoso.

«Non oserete però chiuderla a me, la vostra casa», disse con quello stesso tono sfacciato Achtyrzev. «Mi pare di essermelo guadagnato, io, il diritto di dirvi tutto quello che penso.»

«E in che modo: se si può sapere?» chiese di scatto un capitano tarchiato con l’uniforme delle guardie.

«In questo modo: sbronzandosi, il lattante», disse provocando decisamente uno scandalo quell’Ippolit che il vecchietto chiamava ‘conte’. «Se permettete, Amelie, lo accompagno a prendere una boccata d’aria fresca.»

«Non appena avrò bisogno del vostro intervento, Ippolit Aleksandrovič, ve ne informerò all’istante», gli rispose Cleopatra non senza un certo veleno, così che il confronto fu stroncato sul nascere. «Meglio che facciamo così, signori. Se proprio non c’è verso di avere con voi una conversazione interessante, meglio che giochiamo ai pegni. L’ultima volta è stato molto divertente, quando Frol Lukič, dopo avere perso, ha ricamato dei fiorellini sul tamburello, e si è punto ogni dito con l’ago!»

Si misero tutti a ridere allegramente eccetto il signore barbuto con i capelli tagliati alla buona, che indossava assai goffamente il frac.

«E così, mammina mia Amalia Kazimirovna, vi fa ridere quel gaglioffo di un bottegaio. E io, imbecille che sono, me lo sono meritato», concluse mitemente con il suo accento siberiano. «Ma tenga conto che fra commercianti onesti il debito viene onorato dal pagamento. Poco fa abbiamo rischiato davanti a voi, adesso non sarebbe male se anche voi rischiaste un poco.»

«Ha proprio ragione il signor commerciante!» esclamò l’avvocato. «Che testa! Una volta tanto la dia anche Amalia Kazimirovna, una prova d’audacia! Signori, ecco qua una proposta! Chi fra noi estrarrà il pegno, potrà esigere dalla nostra luminosa… be’… qualcosa di particolare.»

«Giusto! Bravo!» echeggiò da ogni parte.

«Cos’è? Una sommossa? La rivolta di Spartaco?» scoppiò a ridere la padrona d’accecante bellezza. «Ma cosa volete da me?»

«Lo so io!» intervenne Achtyrzev. «Una risposta sincera, non importa a quale domanda. Di non cavillare, di non giocare al gatto e al topo. E assolutamente a quattr’occhi.»

«Perché poi a quattr’occhi?» protestò il capitano. «Saranno tutti curiosi di sentire.»

«Se lo facciamo davanti a tutti, non verrà fuori nulla di sincero», disse la Bežezkaja con gli occhi sfavillanti. «D’accordo, giochiamo alla sincerità, come piace a voi. Spero soltanto che il fortunato non avrà paura di sentire da me la verità. La verità potrebbe anche non rivelarsi così appetitosa.»

Il conte aggiunse in tono beffardo, arrotando le erre in modo autenticamente parigino: «J’en ai le frisson que d’y penser. Quanto alla verità, signori. Chi ne ha bisogno? Non sarebbe meglio giocare alla roulette americana? Come, non vi attira?»

«Ippolit, mi pareva di avervi avvertito!» gli si scagliò contro fulminea la dea. «Non starò a ripetermi! A proposito di quello nemmeno una parola!»

Ippolit tacque all’istante e levò perfino le mani in alto dicendo che sarebbe rimasto muto come un pesce.

Nel frattempo il capitano, sveltissimo, aveva già messo tutti i pegni in un berretto. Erast Petrovič diede il fazzoletto di batista di suo padre col monogramma P. F.

Incaricarono delle estrazioni il glabro Anton Ivanovič.

Per primo tolse dal berretto il sigaro che vi aveva messo lui, e chiese furtivo: «Cosa va a questo pegno?»

«Il buco della ciambella», rispose la Cleopatra che si era girata contro il muro, al che scoppiarono tutti a ridere a eccezione del glabro.

«E a questo?» chiese Anton Ivanovič estraendo con indifferenza la matita d’argento del capitano.

«La neve dell’anno scorso.»

Seguirono poi un orologio con medaglione («orecchie di pesce»), una carta da gioco («mes condoléances»), degli zolfanelli («l’occhio destro di Kutuzov»), un bocchino d’ambra («un vano affaccendarsi»), un assegnato da cento rubli («tre volte nulla»), un pettinino di tartaruga («quattro volte nulla»), un chicco d’uva («la capigliatura di Orest Kirillovič»: risa prolungate alle spese del signore con la croce di Vladimir che era completamente calvo), un garofano («a questo qui mai e per nessuna ragione»). Nel berretto restavano soltanto due pegni: il fazzoletto di Erast Petrovič e l’anello d’oro di Achtyrzev. Quando fra le dita del banditore scintillò luminoso l’anello, lo studente si protese tutto in avanti, e Fandorin vide delle gocce di sudore imperlare la fronte del brufoloso.

«E a questo che gli diamo?» chiese strascicando la voce Amalia Kazimirovna a cui, a quanto pareva, era venuto a noia intrattenere il pubblico. Achtyrzev si alzò e, non credendo alla sua fortuna, si sfilò il pince-nez dal naso. «Ma no, magari non a lui, casomai all’ultimo», concluse la tormentatrice.

Si voltarono tutti verso Erast Petrovič, rivolgendogli finalmente uno sguardo serio. Quanto a lui, in questi ultimi minuti, man mano che le sue chance crescevano, non aveva fatto che pensare sempre più febbrilmente come comportarsi in caso di successo. Ebbene, era sciolto ogni dubbio. Si vede che la sorte aveva voluto così.

A questo punto, alzandosi di colpo, Achtyrzev corse verso di lui, e sussurrò focosamente: «Cedetemelo, vi supplico. Cosa vi costa… siete qui per la prima volta, mentre per me ne va della vita… Vendetemelo, alla fin fine. Quanto? Cosa volete, cinquecento, mille? Di più?»

Con una decisione tranquilla che sorprese lui per primo, Erast Petrovič scostò il supplice, si alzò, si avvicinò alla padrona di casa e le chiese con un inchino: «Dove volete che andiamo?»

Lei guardò Fandorin con allegra curiosità. Quello sguardo gli fece girare la testa.

«Va benissimo laggiù, in quell’angolo. Diversamente avrei paura a isolarmi con voi: siete così audace.»

Senza badare alle risate beffarde degli altri, Erast Petrovič la seguì nell’angolo più lontano del salotto e si mise a sedere sul divano dallo schienale intagliato. Amalia Kazimirovna infilò un sigarillo nel bocchino d’argento, accese da una candela e inspirò voluttuosamente.

«E quanto vi ha offerto per me Nikolaj Stepanyč? Lo so bene, cosa vi stava sussurrando.»

«Mille rubli», rispose onestamente Fandorin. «Anche di più, ha detto.»

Gli occhi d’agata della Cleopatra sfavillarono cattivi.

«Oh, quanto è poco paziente. E voi cosa siete, un miliardario?»

«No, io non sono ricco», disse modestamente Erast Petrovič. «Ma ritengo meschino fare commercio dei propri successi.»