Gli ospiti si erano stancati di origliare la conversazione -tanto non si sentiva niente lo stesso — e così, divisisi in gruppi, passarono ai loro discorsi, sebbene ognuno lanciasse di tanto in tanto un’occhiatina in quell’angolino lontano.
Intanto la Cleopatra con espressione apertamente beffarda studiava il suo temporaneo dominatore.
«Cosa desiderate chiedermi?»
Erast Petrovič esitò.
«La risposta sarà onesta?»
«L’onestà non ve la posso promettere, ce n’è assai poca nei nostri giochi, ma sulla mia sincerità potete contare», rise la Bežezkaja con un’amarezza appena percettibile. «Però non deludetemi, non fatemi domande sciocche. Vi considero un esemplare curioso.»
Allora Fandorin attaccò all’impazzata.
«Cosa sapete a proposito della morte di Petr Aleksandrovič Kokorin?»
La padrona di casa non si spaventò, non tremò, tuttavia Erast Petrovič ebbe l’impressione che gli occhi le si fossero assottigliati un istante.
«E a voi a cosa serve saperlo?»
«Questo ve lo spiegherò dopo. Prima rispondetemi.»
«Va bene, ve lo dirò. Kokorin è stato ucciso da una signora assai spietata.»La Bežezkaja abbassò un attimo le spesse ciglia nere e lo scottò da lì sotto con uno sguardo veloce come un colpo di fioretto. «E questa belle femme sans merci si chiama ‘passione’.»
«Passione per voi? Perché lui vi frequentava, vero?»
«Mi frequentava. E a parte me qui, mi pare, non c’è nessuno di cui innamorarsi. A meno di considerare Orest Kirillovič.»Scoppiò a ridere.
«E a voi Kokorin non fa nessuna pena?» chiese Fandorin meravigliandosi di tanta durezza.
La regina egizia alzò con indifferenza le spalle.
«Ciascuno è padrone della sua sorte. Ma non vi pare di aver fatto abbastanza domande?»
«No!» si affrettò a dire Erast Petrovič. «E cosa c’entrava Achtyrzev? E cosa significa il testamento a favore di lady Esther?»
Il boato delle voci si fece più forte, e Fandorin si voltò con impazienza.
«Non vi piace il mio tono?» chiedeva a voce alta Ippolit, spingendo Achtyrzev ubriaco. «E questo ti piace, baccellone?» chiese picchiando col palmo la fronte dello studente, con poca forza, eppure quel mingherlino di Achtyrzev volò verso la poltrona, ci cascò dentro e restò seduto sbattendo gli occhi smarrito.
«Scusate, conte, così non si può!» Erast Petrovič si protese in avanti. «Anche se voi siete il più forte, questo non vi dà il diritto di…»
Comunque le sue frasi sconnesse, a cui il conte non aveva quasi badato, furono sommerse dalla voce cristallina della padrona di casa: «Ippolit, esci fuori! E che i tuoi piedi non riappaiono più qui finché non torni sobrio!»
Il conte, imprecando, rimbombò verso l’uscita. I restanti ospiti si misero a guardare con curiosità l’afflosciato Achtyrzev, che faceva proprio pena e nemmeno compiva il benché minimo sforzo per risollevarsi.
«Qui siete voi l’unico che somigli a un essere umano», sussurrò Amalia Kazimirovna a Fandorin, dirigendosi verso il corridoio. «Portatelo via. E non abbandonatelo.»
Quasi subito apparve John lo spilungone, che aveva cambiato la livrea con una finanziera nera dalla pettina inamidata, e aiutò a portare lo studente fino alla porta dove gli calcò il cilindro sul capo. La Bežezkaja non uscì a salutare e, considerata la cupa fisionomia del maggiordomo, Erast Petrovič capì che era ora di andarsene.
QUINTO CAPITOLO
Sulla strada, respirando l’aria fresca, Achtyrzev si riprese un poco, riusciva a star fermo sulle gambe, senza barcollare, ed Erast Petrovič" credette di non doverlo più sostenere sotto il gomito.
«Andiamo fino a via Sretenka», gli disse. «Là vi troverò un vetturino. C’è molto da qui fino a casa vostra?»
«Fino a casa?» Nella luce ineguale del fanale al cherosene il pallido viso dello studente sembrava una maschera. «No, a casa per nessuna ragione al mondo! Andiamocene insieme da qualche parte, che ne dite? Ho voglia di chiacchierare un po’. L’avete visto voi… come mi trattano quelli. Come vi chiamate? Me lo ricordo, Fandorin, buffo cognome. Io mi chiamo Achtyrzev. Nikolaj Achtyrzev.»
Erast Petrovič accennò un inchino, e intanto cercava di risolvere un complesso problema morale: se non fosse eccessivamente scorretto approfittare dello stato di debolezza di Achtyrzev per farsi dare da lui le informazioni necessarie, visto che il «gobbo», a quanto pareva, era in vena di confidenze.
Decise che non c’era nulla di male, si poteva. Non aveva certo la forza di opporsi a tanto fervore investigativo.
«Qui vicino c’è il Crimea», considerò Achtyrzev. «E non c’è bisogno di prendere una vettura, possiamo arrivarci a piedi. Certo, è un postaccio, in compenso il vino è buono. Venite con me? Offro io.»
Fandorin non si mise a fare lo smorfioso, e lentamente (lo studente comunque non si teneva bene in piedi) si trascinarono per il vicolo buio in direzione delle luci di via Sretenka che brillavano lontane.
«Voi, Fandorin, probabilmente mi considerate un vigliacco, vero?» gli chiese Achtyrzev con la lingua impastata. «Perché non ho sfidato a duello il conte, ho sopportato l’offesa e per di più mi sono finto ubriaco? Io non sono un vigliacco, potrei anche raccontarvi qualcosa da convincervene… Dopotutto lui faceva apposta a provocarmi. Magari è stata lei a incitarlo per sbarazzarsi di me e non pagare il suo debito… Oh, quella è una donna, voi non la conoscete!… E per Zurov ammazzare un uomo è lo stesso che schiacciare una mosca. Ogni mattina si esercita un’ora con la pistola. Dicono riesca a prendere una moneta da cinque copechi a venti passi di distanza. Sarebbe forse stato un duello? Lui non avrebbe rischiato nulla. Sarebbe stato un assassinio, però con un bel nome. E, soprattutto, Zurov non ne avrebbe pagato le conseguenze, se la sarebbe cavata. Se l’è già cavata più di una volta. Sì, passerà qualche mese fuori dalla Russia, farà una vacanza. E poi adesso io voglio vivere, me ne sono guadagnato il diritto.»
Svoltarono da via Sretenka in un altro vicolo, assai misero ma se non altro con i fanali a gas e non più a cherosene, e davanti a loro si disegnò un edificio a tre piani con le finestre bene illuminate. Doveva essere quello il Crimea, pensò con un tuffo al cuore Erast Petrovič che aveva sentito tanto parlare di quel nido del libertinaggio, famoso in tutta Mosca.
Nel vasto porticato brillante di lampade nessuno si fece loro incontro. Achtyrzev con gesto da habitué spinse l’alta porta intarsiata, che gli cedette facilmente, e incontro a loro alitò un tepore di cucina e di alcolici, si levò un boato di voci e uno stridere di violini.
Consegnati al guardaroba i cilindri, i giovani finirono nelle grinfie di un tipo baldanzoso in camicia rossa, il quale si rivolgeva ad Achtyrzev chiamandolo «eccellenza» e promise il tavolino migliore, tenuto apposta da parte.
Il tavolino era vicino al muro e, grazie a Dio, lontano dalla scena su cui un coro zigano vociava e scuoteva i tamburelli.
Erast Petrovič, che per la prima volta in vita sua si trovava in un vero covo di perdizione, cominciò a girare la testa da ogni parte. Il pubblico era dei più variopinti, ma gente sobria, a quanto pareva, non se ne vedeva proprio. Il tono lo davano dei giovani bottegai e operatori di borsa con la scriminatura impomatata — si sa chi ha soldi al giorno d’oggi, ma ci capitavano anche signori dall’aspetto incontrovertibilmente nobiliare, qua e là brillava perfino un monogramma in oro sulla spallina di un militare altolocato. Ma più di tutto suscitavano l’interesse del giovane le ragazze che andavano a sedersi ai tavoli al primo gesto d’invito. Avevano scollature tali da far arrossire Erast Petrovič, mentre le gonne con gli spacchi facevano intravedere impudicamente ginocchia rotonde fasciate da calze traforate.