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Del resto, non ho niente a che fare con nessuno di voi, e questo biglietto lo scrivo perché non vi salti in testa che mi sarei ucciso per una qualche lacrimevole sciocchezza. Mi dà la nausea il vostro mondo e, davvero, questo è un motivo più che sufficiente. Quanto al fatto che non sono del tutto una bestia, ne dà testimonianza il taccuino in cuoio.

Petr Kokorin

Non si direbbe che fosse particolarmente agitato, ecco il primo pensiero occorso a Erast Petrovič.

«In che senso dice qui del taccuino in cuoio?» chiese.

L’aiutante del commissario si strinse nelle spalle: «Non aveva addosso nessun taccuino in cuoio. Che volete, del resto era fuori di sé. Magari si accingeva a fare qualcosa del genere, poi ci avrà ripensato oppure se lo sarà dimenticato. A giudicare da ogni cosa, era uno stravagante. Avete letto come ha girato il tamburo? A proposito, nel tamburo un solo alveo conteneva la cartuccia. Io, per parte mia, sono di questo avviso: che non intendeva affatto spararsi, ma voleva solo stuzzicarsi i nervi… come dire, perché le sensazioni vitali gli si acuissero. Perché dopo ci fosse più gusto a mangiare e fosse più piccante fare bisboccia».

«Solo una cartuccia su sei? Certo, non ha avuto fortuna», si dolse per il defunto Erast Petrovič, che continuava a stare in pensiero per il taccuino in cuoio.

«Dove abita? Voglio dire, abitava…»

«In un appartamento di otto stanze nel palazzo nuovo in via Ostoženka, di gran lusso», rispose Ivan Prokofevič riferendo con piacere le sue impressioni. «Dal padre aveva ereditato la casa natale nell’oltremoscova, un’intera tenuta con tanto di dépendance, però non aveva voluto abitare lì, ha preferito trasferirsi un po’ più lontano dal ceto mercantile.»

«E lì non l’avete trovato, quel taccuino in cuoio?»

L’aiuto del commissario si stupì: «Perché, secondo voi avremmo dovuto fare una perquisizione? Ve l’ho detto, quello è un appartamento da non mandarci gli agenti per non indurli in tentazione — non li avesse a confondere il diavolo. E a che scopo, poi? Egor Nikiforovic, istruttore della procuratura distrettuale, ha lasciato un quarto d’ora al cameriere del morto per raccattare le sue cose — e sotto la sorveglianza della guardia, Dio non volesse portasse via qualcosa del suo padrone — e mi ha dato ordine di sigillare la porta. Fino all’annuncio degli eredi».

«E chi sono gli eredi?» chiese incuriosito Erast Petrovič.

«Qui c’è una complicazione. Il cameriere dice che Kokorin non ha fratelli né sorelle. Ha solo dei lontani cugini, ma quelli non li lasciava nemmeno entrare in casa. E a chi mai andrà quel bel gruzzolo?» sospirò con invidia Ivan Prokofevic. «Questo fa paura solo a pensarci… Ma, non è affar nostro. L’avvocato o l’esecutore testamentario saranno annunciati se non oggi domani. Non sono passate nemmeno ventiquattr’ore. E il cadavere sta ancora in ghiacciaia. Magari domani Egor Nikiforovič chiude la pratica, allora si comincia.»

«Però è strano», osservò il giovane segretario aggrottando la fronte. «Se una persona in una lettera d’addio accenna appositamente a un qualche taccuino, non lo fa a casaccio. Anche in quell’espressione ‘del tutto una bestia’ c’è qualcosa di poco chiaro. E se in quel taccuino ci fosse qualcosa di importante? Voi fate pure come vi pare, ma io andrei subito a cercarlo nell’appartamento. A me pare che la lettera è stata scritta tutta per via di questo taccuino. Lì c’è un qualche mistero, dico sul serio.»

Erast Petrovič arrossì, nel timore di essersi espresso un po’ troppo infantilmente con quel mistero, ma l’aiuto del commissario non trovò nulla di strano nella sua supposizione.

«Allora bisognava se non altro guardare le carte nello studio», riconobbe. «Egor Nikiforovič va sempre di fretta. Tiene famiglia, e numerosa, così cerca sempre di svignarsela dalle ispezioni o dall’istruttoria per filarsela a casa il più velocemente possibile. È vecchio, gli manca solo un anno alla pensione, cosa volete… Ma vediamo, signor Fandorin. Non vi andrebbe di andarci voi stesso? Potremmo darci un’occhiata insieme. Poi ci affiggo un sigillo nuovo, non è gran cosa. Egor Nikiforovič sarà indulgente. Che gliene importa, ci dirà grazie, che non lo abbiamo disturbato una volta di troppo. Gli dirò che la richiesta è arrivata dal comando investigativo, d’accordo?»

Erast Petrovič ebbe l’impressione che lo smunto aiutante del commissario avesse semplicemente voglia di guardarlo meglio, quell’appartamento «di gran lusso», e se anche l’affissione di un nuovo sigillo non era proprio per la quale, era difficile resistere: lì effettivamente c’era sentore di mistero.

Gli arredi nell’appartamento del defunto Petr Kokorin (il piano nobile di un ricco palazzo in affitto vicino a porta Precistenkaja) non fecero una grande impressione a Fandorin: all’epoca della primaticcia ricchezza del suo paparino aveva abitato anche lui in una magione di livello non inferiore. Perciò una volta che fu nell’ingresso marmoreo con l’immenso specchio veneziano e la stuccatura dorata sul soffitto, non manifestò nessuno stupore ma passò direttamente in salotto, che era grande, con sei finestre, secondo l’ultimissima moda alla russa: con bauli dipinti, boiserie in quercia lungo le pareti e un’elegante stufa di mattonelle smaltate.

«Ve lo dicevo, alloggiavano secondo ogni regola del bon ton», gli alitò nella nuca, chissà perché con un sussurro, il suo accompagnatore.

In quel momento Erast Petrovič era sorprendentemente simile a un giovane setter appena sguinzagliato per la prima volta nel bosco e stordito dall’odore pungente e allettante della selvaggina a un passo da lui. Voltando la testa a destra e a sinistra, stabilì senza fallo: «Quella porta laggiù è forse lo studio?»

«Proprio così.»

«Allora andiamoci!»

Il taccuino in cuoio non si fece cercare a lungo: si trovava sulla massiccia scrivania, fra il set di calamai in malachite e il portacenere a conchiglia in madreperla. Ma prima che le mani impazienti di Fandorin toccassero lo scricchiolante cuoio marrone, il suo sguardo cadde sul ritratto in cornice d’argento, piazzato sul tavolo nel punto più in vista. Il viso fotografato era così straordinario che Erast Petrovič si dimenticò perfino del taccuino: lo stava guardando di mezzo profilo una Cleopatra dalle folte chiome con enormi occhi nero cupo, una inclinazione superba del lungo collo e una crudeltà appena accennata nella linea caparbia del labbro. Più di tutto aveva incantato il giovane investigatore quell’espressione di tranquilla e sicura imperiosità, talmente inaspettata in un viso di fanciulla (per un suo qualche motivo Fandorin ci teneva che si trattasse assolutamente di una signorina, e non di una signora).

«Una vera bellezza», fischiettò Ivan Prokofevič che si trovava lì accanto. «Ma chi sarà mai? Permettete…»

E senza la minima trepidazione, estrasse con mano blasfema il magico sembiante dalla cornice e rigirò la foto. Sul retro, scritto in caratteri ampi, inclinati, si leggeva:

A Petr K.

E Pietro uscì e pianse amaramente. Dopo avere amato, non rinnegate!

A. B.

«Se lo paragona all’apostolo Pietro, vuol dire che paragona se stessa a Gesù Cristo? Com’è ambiziosa, però!» sbuffò l’aiutante del commissario. «Non sarà mica per via di questo personaggino che il nostro studente si è dato la morte con le sue mani, eh? Ah, ma ecco qui il taccuino in cuoio, non siamo venuti per niente.»

Aperta la copertina di cuoio, Ivan Prokofevič ne estrasse un unico foglietto, scritto su quella carta azzurra già nota a Erast Petrovič, questa volta però con timbro notarile e alcune firme apposte sotto.