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«Registratore di collegio Fandorin Erast Petrovič, direzione della polizia investigativa», disse presentandosi con tono ufficiale. «Conduco l’inchiesta sul caso dello sfortunato evento ai giardini di Sant’Alessandro. È insorta la necessità di fare ancora alcune domande. Ma se vi dispiace — capisco benissimo che il fatto vi ha sconvolta — mi accontenterò di una conversazione con la sola signora Pful.»

«Sì, è stato orribile.»Gli occhi della giovane, già di per sé notevolissimi, si allargarono ancora di più. «È vero che ho chiuso gli occhi e non ho visto quasi nulla, e poi sono rimasta priva di sensi… Ma mi interessa talmente! Fräulein Pful, posso restare anch’io? Vi prego! Dopotutto, sono anch’io una testimone alla pari di voi!»

«Per parte mia, nell’interesse dell’indagine, preferirei anch’io che la signora baronessa assistesse», dichiarò timidamente Fandorin.

«L’ordine è sempre l’ordine», assentì Emma Gottlibovna. «Io, Lizchen, ve lo ripeto sempre: Ordnung muss sein. Bisogna obbedire alla legge. Potete restare.»

Lizanka (perché in cuor suo Fandorin, avviato a precipitosa rovina, già chiamava così Elizaveta Aleksandrovna) si mise prontamente a sedere sul divano di cuoio, guardando il nostro eroe a occhi spalancati. Lui riprese il controllo di sé e, rivolgendosi a Fräulein Pful, chiese: «Siate così gentile da farmi il ritratto di questo signore».

«Del signore che si è sparato?» precisò lei. «Na ja. Occhi marroni, capelli castani, piuttosto alto di statura, senza baffi o barba, nemmeno i favoriti, fiso giovanissimo ma non molto pello. Adesso l’abbigliamento…»

«L’abbigliamento dopo», la interruppe Erast Petrovič.

«Avete detto che il viso non era bello. Perché? Per via dei brufoli?»

«Pickeln», tradusse arrossendo Lizanka.

«A sì, i brufoli», disse la governante ripetendo con gusto la parola che non aveva capito subito. «No, il signore non aveva brufoli. Aveva una bella pelle sana. Ma il viso non era molto bello.»

«Come mai?»

«Malvagio. Guardava come se non volesse uccidere se stesso, ma qualcun altro di completamente diferso. Oh, è stato un incubo!» si eccitò al ricordo Emma Gottlibovna. «La primavera, il bel tempo, il sole, le signore e i signori a passeggio, un giardino meraviglioso tutto in fiore!»

A queste parole Erast Petrovič avvampò e guardò in tralice Lizanka che però, si vede, era abituata da tempo al curioso modo di esprimersi della sua duenna, e guardava alle cose in modo altrettanto fiducioso e radioso.

«E il pince-nez l’aveva? Magari non sul naso, gli spuntava dal taschino? Con un nastrino di seta?» chiese Fandorin incalzando di domande. «E non avete avuto l’impressione che fosse un po’ gobbo? Ancora una cosa. So che portava la finanziera, ma non c’era nulla nel suo aspetto che tradisse lo studente — i calzoni dell’uniforme, per esempio? Non li avete notati?»

«Io noto sempre tutto», rispose con sussiego la tedesca. «I calzoni erano pantaloni a quadretti di ottima lana. Il pince-nez non l’afeva affatto. Non era affatto gobbo. Quel signore aveva un bel portamento.»S’impensierì e poi chiese inaspettatamente a sua volta: «Un po’ gobbo, pince-nez e studente? Perché dite così?»

«Perché me lo chiedete?» domandò guardingo Erast Petrovič.

«Strano. Lì c’era un signore. Uno studente gobbo col pince-nez.»

«Come! Dove!?» esclamò Erast Petrovič.

«Un signore così io l’ho visto… jenseits… dall’altra parte della cancellata, sulla strada. Stafa lì e ci guartava. Ho anche pensato che a quel punto il signor studente ci avrebbe aiutate a mandar via quell’uomo orribile. Ed era molto gobbo. Questo l’ho visto dopo, dopo che l’altro signore si era già ucciso. Lo studente si è voltato e se ne è andato via velocissimo. In quel momento ho visto quanto era gobbo. Questo succede quando non si insegna ai bambini a star seduti composti fin da piccoli. Stare seduti nella posizione ciusta è molto importante. Le mie allieve stanno sempre sedute nel modo giusto. Guardate la Fräulein baronessa. Vedete come tiene la spina dorsale? È molto pello!»

A questo punto Elizaveta Aleksandrovna arrossì, ma con tanta grazia che Fandorin perse per un attimo il filo, sebbene le informazioni della signorina Pful fossero indubbiamente di un’importanza eccezionale.

QUARTO CAPITOLO

ove si narra della forza rovinosa della bellezza

L’indomani alle undici del mattino Erast Petrovič, accompagnato dalla benedizione del suo superiore e perfino provvisto di tre rubli per le spese straordinarie, si recò all’edificio giallo dell’Università in via Mochovaja. Il compito non si presentava difficile, ma tale da richiedere una certa fortuna: individuare uno studente gobbo, di nessuna eminenza e un po’ brufoloso con il pince-nez legato a un nastrino di seta. Era pienamente verosimile che questo dubbio signore non studiasse affatto in via Mochovaja, ma all’Istituto tecnico superiore, all’Accademia forestale oppure in un qualsiasi altro istituto per geometri, tuttavia Ksaverij Feofilaktovič (che aveva preso a considerare il suo giovane aiutante con un certo stupore non privo di gioia) concordava completamente con la supposizione di Fandorin: la cosa più verosimile era che «il gobbo», non diversamente dal defunto Kokorin, studiasse all’università e molto probabilmente alla stessa facoltà, giurisprudenza.

Vestito in borghese, Erast Petrovič volò a rotta di collo su per i consunti scalini in ghisa dell’ingresso principale, oltrepassò un custode barbuto in livrea verde e occupò una comoda postazione nel vano semicircolare di una finestra da cui poteva sorvegliare benissimo sia l’atrio e il guardaroba sia la porta e perfino gli ingressi di entrambi gli annessi. Per la prima volta da quando gli era morto il padre e la sua giovane vita aveva deviato da un percorso chiaro e diritto, Erast Petrovič guardava le sacre mura gialle dell’università senza provare in cuore la nostalgia di quanto avrebbe potuto realizzarsi, ma non si era tuttavia realizzato. Non sappiamo ancora quale esistenza sia la più utile e interessante per la società, se l’apprendimento meccanico dello studente oppure la vita severa di un investigatore impegnato in un’inchiesta importante e pericolosa. (D’accordo, magari non pericolosa, ma comunque di una responsabilità straordinaria e segreta. )

All’incirca uno ogni quattro studenti entrati nella visuale del nostro attentissimo osservatore portava il pince-nez, molti per di più proprio con il nastrino di seta. All’incirca uno ogni cinque aveva un certo numero di brufoli in faccia. E non mancavano quelli un po’ gobbi. Eppure non c’era verso che tutti e tre questi segni particolari si degnassero di combinarsi in un unico studente.

Alle due Fandorin, che cominciava ad avvertire i morsi della fame, si tolse di tasca un panino al salame e si rifocillò senza lasciare il suo posto di guardia. Nel frattempo si era stabilito un rapporto davvero benevolo fra Erast Petrovič e il custode barbuto, che gli aveva detto di chiamarsi Mitric ed era riuscito a dargli alcuni consigli preziosissimi a proposito dell’iscrizione all’Università. Fandorin, che si era spacciato con il loquace vecchietto per un provinciale aspirante ai mitici bottoni con lo stemma universitario, si stava già chiedendo se non fosse ora di mutare versione e interrogare direttamente Mitric a proposito del «gobbo» brufoloso, quando il custode riprese ad affaccendarsi, si tolse il berretto a visiera e spalancò il portone. Mitric metteva in pratica tale procedura al passaggio di un professore o di uno degli studenti più ricchi, ricevendone in cambio di tanto in tanto ora un copeco, ora addirittura cinque. Erast Petrovič si girò e vide avvicinarsi all’uscita uno studente che aveva appena ritirato dal guardaroba un sontuoso soprabito di velluto con gli alamari a forma di zampa di leone. Sul naso dell’elegantone luccicava il pince-nez, e sulla fronte gli rosseggiava una galassia di brufoli. Fandorin si sporse pure nel tentativo di vedere bene quale fosse il portamento dello studente, ma la maledetta mantellina del soprabito e il colletto alzato impedivano di pronunciare una diagnosi.