Baby Jenks balzò dalla Harley che era caduta. Il rumore cessò. Poi sentì nelle orecchie uno squillo intenso.
«… tutto ciò che vuoi», stava dicendo il Morto. «Qualunque cosa, non hai che da chiedere e lo faremo. Siamo i tuoi servitori…» Poi passò correndo accanto a Baby Jenks e per poco non la fece cadere. Afferrò la moto.
«Ehi!» gridò Baby Jenks. Ma nel momento i cui si mosse per raggiungerlo, il Morto prese fuoco. Urlò.
E anche Baby Jenks urlò e urlò. Il Morto bruciava e si rotolava a terra come una girandola. E dietro di lei, la casa della congrega esplose. Sentì la vampata di caldo alla schiena, vide gli oggetti volare in aria. Il cielo era così illuminato che sembrava mezzogiorno.
Oh, Gesù santo, lasciami vivere, lasciami vivere!
Per una frazione di secondo pensò che il suo cuore stesse per scoppiare. Stava per abbassare lo sguardo e controllare se il petto si fosse squarciato e il cuore eruttasse sangue come lava da un vulcano: ma il caldo crebbe dentro di lei e swoosh… non era più lì.
Saliva e saliva attraverso un tunnel nero, aleggiava in alto e guardava la scena.
Oh, sì, proprio come prima. Ed era là, la cosa che li aveva uccisi, una figura bianca in mezzo agli alberi. Gli abiti del Morto fumavano sull’asfalto. E anche il suo corpo bruciava.
Attraverso le fiamme vedeva i puri contorni neri del suo cranio e delle sue ossa. Ma non le facevano paura. Non le sembrava neppure interessante.
Era la figura bianca a sbalordirla. Pareva una statua, come la vergine Maria nella chiesa cattolica. Fissava gli scintillanti fili argentei che sembravano irradiarsi dalla figura in ogni direzione, fili di luce danzante. E mentre saliva più in alto, vide che i fili argentei si protendevano, si aggrovigliavano con altri fili e formavano una rete gigantesca su tutto il mondo. E nella rete c’erano tanti Morti, imprigionati come mosche in una ragnatela. Minuscoli punti di luce che palpitavano e si collegavano alla figura bianca, ed era quasi bello… però era molto triste. Oh, le povere anime di tutti i Morti, prigioniere nella materia indistruttibile che non poteva invecchiare né morire.
Ma era libera. La rete era lontana da lei. E vedeva tante cose.
E c’erano migliaia e migliaia di altri morti anche lassù, in un grande strato grigio e nebuloso. Alcuni erano smarriti, altri lottavano tra loro, altri ancora guardavano dov’erano morti ed erano patetici perché non sapevano o non credevano d’essere morti. Ce n’erano alcuni che cercavano di farsi vedere e sentire dai vivi, ma non ci riuscivano.
Sapeva d’essere morta. Era già accaduto. Stava semplicemente passando attraverso quel covo nebbioso di esseri tristi. Ormai stava andando. E la pateticità della sua vita terrena l’addolorava. Ma non era la cosa più importante.
La luce splendeva di nuovo, la stessa luce magnifica che brillava quando per poco non era morta, la prima volta. Si mosse in quella dkezione e vi entrò. Era davvero bellissimo. Non aveva mai visto simili colori, un simile fulgore, non aveva mai udito la musica purissima che ora stava ascoltando. Non c’erano parole per descrivere tutto questo: trascendeva ogni linguaggio. E questa volta nessuno l’avrebbe riportata indietro!
Perché quella che veniva verso di lei, per accòglierla e aiutarla… era sua madre! E sua madre non l’avrebbe mai lasciata andare.
Non aveva mai provato un amore come quello che sentiva ora per sua madre; ma del resto l’amore la circondava… la luce, il colore, l’amore… erano tutte cose indistinguibili l’una dall’altra.
Ah, povera Baby Jenks, pensò mentre guardava la terra per l’ultima volta. Ma non era Baby Jenks, adesso. Non lo era più.
3.
LA DEA PANDORA
Lei era alta, tutta vestita di nero, le si vedevano solo gli occhi, i passi erano lunghi mentre si muoveva a velocità inumana sul sentiero infido coperto di neve. Era quasi serena, quella notte tempestata di stelle minuscole nell’atmosfera rarefatta dell’Himalaya, e molto più avanti, al di là della sua capacità di misurare la distanza, incombeva il fianco massiccio e increspato dell’Everest, splendidamente visibile al di sopra di una densa ghirlanda di nubi bianche e turbolente. Si sentiva mancare il respiro ogni volta che lo guardava, non solo perché era così bello ma perché sembrava così pieno di significato, anche se in realtà un vero significato non esisteva.
Venerare quella montagna? Sì, lo si poteva fare impunemente, perché la montagna non avrebbe mai risposto. Il vento sibilante che le agghiacciava la pelle era la voce di nulla e di nessuno. E quella grandiosità casuale e indifferente le faceva venire voglia di piangere.
E le faceva venir voglia di piangere anche la vista dei pellegrini, molto più in basso, che sembravano tante formiche mentre percorrevano una strada assurdamente stretta. Le loro illusioni erano indicibilmente tristi. Eppure anche lei era avviata verso lo stesso tempio nascosto tra le montagne, verso lo stesso dio spregevole e ingannatore.
Il freddo la faceva soffrire. Il ghiaccio le incrostava il viso e le palpebre, le pendeva dalle ciglia in minuscoli cristalli. E ogni passo nel vento furioso era difficile persino per lei. In realtà tutto questo non poteva causarle sofferenza o morte, era troppo vecchia. La sua sofferenza era mentale. Derivava dalla tremenda resistenza degli elementi, dal fatto di non vedere nulla, per ore, tranne il candore abbagliante delle nevi.
Non aveva importanza. Un profondo fremito d’allarme l’aveva scossa qualche notte prima, nelle vie affollate e fetide della vecchia Delhi, e s’era ripetuto a ogni ora, come se il nucleo stesso della terra avesse incominciato a tremare.
In certi momenti era sicura che la Madre e il Padre si stessero destando. Chissà dove, in una cripta dove li aveva nascosti il suo amato Marius, Coloro-che-devono-essere-conservati s’erano finalmente mossi. Soltanto la loro resurrezione poteva trasmettere quel segnale potente e tuttavia vago… Akasha ed Enkil che si levavano, dopo seimila anni di orrorifica immobilità, dal loro trono comune.
Ma era una fantasia, no? Tanto sarebbe valso chiedere alla montagna di parlare. Gli antenati lontani di tutti i bevitori di sangue per lei non rappresentavano una semplice leggenda. Diversamente da tanti dei loro discendenti, ella li aveva visti con i suoi occhi. Era stata resa immortale sulla soglia del loro sacrario; s’era trascinata in ginocchio e aveva toccato la Madre; aveva trapassato la superficie levigata che un tempo era stata la pelle della Madre e aveva raccolto nella bocca aperta il getto di sangue. Era stato un grande miracolo anche allora, il sangue vivo che sgorgava dal corpo senza vita prima che le ferite si rimarginassero prodigiosamente.
Ma in quei primi secoli di fede magnifica aveva condiviso con Marius la convinzione che la Madre e il Padre fossero soltanto addormentati, e sarebbe venuto il momento in cui si sarebbero destati e avrebbero parlato nuovamente ai loro figli.