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Eppure sapeva che lei era lì. E dal centro della danza la guardò direttamente, e lei vide le labbra sporche di sangue incurvarsi in un sorriso.

Pandora, mia bellissima, immortale Pandora…

Era sazio del banchetto, ingrassato e riscaldato come raramente lei aveva visto diventare un immortale. Azim buttò la testa all’indietro, girò su se stesso e lanciò un grido stridulo. I suoi accoliti si avvicinarono, e gli colpirono i polsi protesi con i coltelli cerimoniali.

I fedeli si assieparono intorno a lui, con le bocche levate per cogliere il sacro sangue che sgorgava. Il salmodiare divenne più forte, più insistenti divennero le grida soffocate di coloro che gli stavano più vicini. E all’improvviso lo vide sollevare, disteso sulle spalle dei seguaci, con le babbucce d’oro rivolte verso l’alto soffitto, mentre i coltelli gli tagliavano le caviglie e di nuovo i polsi, dove le ferite s’erano già chiuse.

La folla impazzita sembrava espandersi mentre i movimenti diventavano più frenetici; corpi puzzolenti la urtavano, dimentichi del freddo e della durezza delle membra antiche sotto gli informi indumenti di lana. Non si mosse. Si lasciò circondare, attirare. Vide Azim calato di nuovo al suolo, dissanguato, gemente, con le ferite già rimarginate. Le fece cenno di avvicinarsi. Lei rifiutò in silenzio.

Rimase a guardare mentre Azim si tendeva e afferrava una vittima, ciecamente, a caso, una donna giovane dagli occhi dipinti e dagli orecchini d’oro, e le squarciava la gola.

La folla aveva perduto la forma perfetta delle sillabe cantilenanti; da ogni bocca, adesso, saliva un semplice grido senza parole.

Con gli occhi sbarrati come se inorridisse del proprio potere, Azim succhiò tutto il sangue della donna, e poi lasciò il corpo sulle pietre ai suoi piedi, dove giacque straziato mentre i fedeli lo circondavano con le mani protese verso il dio vacillante.

Lei voltò le spalle; uscì nell’aria fredda del cortile, allontanandosi dal calore dei fuochi. C’era puzzo di urina e di feci. Si fermò contro il muro e guardò in alto, e pensò alla montagna. Non badò agli accoliti che le passavano davanti trascinando i corpi dei nuovi morti per gettarli tra le fiamme.

Pensò ai pellegrini che aveva visto sulla strada, sotto al tempio, la lunga catena che si muoveva torpidamente giorno e notte fra le montagne disabitate, verso quel luogo senza nome. Quanti morivano senza aver raggiunto quel precipizio? Quanti morivano davanti alle porte, in attesa di poter entrare?

Le ripugnava. Eppure non aveva importanza. Era un orrore antico. Attese. Poi Azim la chiamò.

Si voltò, varcò di nuovo la porta, e poi ne varcò un’altra, ed entrò in una piccola anticamera squisitamente dipinta dove, su un tappeto rosso bordato di rubini, Azim l’aspettava in silenzio, circondato da tesori, offerte d’oro e d’argento, mentre la musica che giungeva dal tempio era più smorzata, carica di languore e di paura.

«Carissima», disse. Le prese il viso tra le mani e la baciò. Un getto caldo di sangue le sgorgò nella bocca, e per un momento d’estasi i suoi sensi si colmarono dei canti e delle danze dei fedeli, delle grida inebrianti. Il calore dilagante dell’adorazione e della resa dei mortali.

Sì, amore. Per un istante rivide Marius. Aprì gli occhi e indietreggiò. Per un momento vide le pareti con i gigli e i pavoni dipinti; vide i mucchi d’oro scintillante. Poi vide soltanto Azim.

Era immutabile come i suoi devoti, immutabile come i villaggi dai quali erano venuti, vagando tra la neve e le rocce fino a giungere a una fine orrenda e priva di senso. Mille anni prima,

Azim aveva dato inizio al suo dominio in quel tempio dal quale nessun fedele usciva mai vivo. La morbida pelle dorata, nutrita da un fiume incessante di sangue sacrificale, era impallidita di pochissimo nel corso dei secoli, mentre la sua aveva perso il colorito umano in metà del tempo. Soltanto gli occhi, e forse i capelli bruni, le davano ancora un’apparenza immediata di vita. Era bella, sì, e lo sapeva, ma Azim aveva un vigore travolgente. Malefico. Irresistibile per i suoi seguaci, avvolto nella leggenda, regnava senza passato né futuro, incomprensibile per lei come sempre.

Non voleva indugiare. Il luogo le ripugnava più di quanto desiderasse far conoscere il suo messaggio. Gli confidò silenziosamente il suo scopo, l’allarme che aveva percepito. C’era qualcosa che non andava, qualcosa che cambiava, qualcosa che prima non era mai accaduto. E gli parlò anche del giovane bevitore di sangue che registrava canzoni in America, canzoni piene di verità sulla Madre e sul Padre, di cui conosceva i nomi. Fu una semplice apertura della sua mente, senza drammaticità.

Guardava Azim, percepiva il suo potere immenso, la capacità con cui avrebbe raccolto da lei ogni pensiero fuggevole, e le avrebbe nascosto i segreti della propria mente.

«Benedetta Pandora», disse con disprezzo. «Che m’importa della Madre e del Padre? Cosa sono per me? Che m’importa del tuo prezioso Marius? Può chiamarmi in suo aiuto quanto vuole! Per me non conta nulla!»

Lei era sbigottita. Marius chiedeva aiuto! Azim rise.

«Spiegati», gli disse.

Un’altra risata. Azim le voltò le spalle. Non le restava altro che aspettare. Era stato Marius a crearla. Tutto il mondo poteva udire la voce di Marius, ma lei no. Era un’eco che l’aveva raggiunto, l’eco fievole di un grido potente che gli altri avevano ascoltato? Dimmi, Azim. Perché rendermi nemica?

Quando Azim si voltò di nuovo era pensoso; la faccia tonda era grassa e umana, il dorso delle mani era carnoso e segnato da fossette mentre le premeva sotto l’umido labbro inferiore. Voleva qualcosa da lei: adesso aveva accantonato disprezzo e malizia.

«È un avvertimento», disse. «Giunge continuamente, ed echeggia attraverso una catena di ascoltatori che lo portano dalle sue origini in un luogo lontano. Siamo tutti in pericolo. Poi è seguito da un’invocazione più debole. Chiede aiuto per cercare di scongiurare il pericolo. Ma non c’è molta convinzione. È soprattutto il monito che vuole farci ascoltare.»

«Le parole… quali sono?»

Azim scrollò le spalle. «Non ascolto. Non m’importa.»

«Ah!» Fu lei a voltargli le spalle. Lo sentì avvicinarsi, sentì che le posava le mani sulle spalle.

«Ora devi rispondere alla mia domanda», disse Azim. La fece girare verso di lui. «È il sogno delle gemelle che mi preoccupa. Che cosa significa?»

Il sogno delle gemelle. Lei non conosceva una risposta. Era una domanda che non aveva senso. Non aveva mai fatto quel sogno.

Azim la fissò in silenzio, come fosse convinto che ella mentisse. Poi parlò molto lentamente, valutando con cura la risposta.

«Due donne dai capelli rossi. Accadono loro cose terribili. Mi appaiono in visioni turbate e sgradite, poco prima che apra gli occhi. Vedo quelle donne violentate in presenza di una corte. Eppure non so chi sono, né perché si compia l’oltraggio. E non sono il solo a chiedermelo. Là, sparsi nel mondo, vi sono altri dèi delle tenebre che fanno questi sogni, e vorrebbero sapere perché ora vengono a noi.»

Dèi delle tenebre! Noi non siamo dèi, pensò lei con un moto di disprezzo.

Azim le sorrise. Non erano forse nel suo tempio? Non si udivano forse i gemiti dei fedeli? Non sentiva l’odore del loro sangue?

«Non so nulla di quelle due donne», disse Pandora. Due gemelle dai capelli rossi. No. Gli toccò le dita in un gesto gentile, quasi seducente. «Azim, non tormentarmi. Voglio che tu mi dica di Marius. Da dove viene il suo richiamo?»