Come lo odiava in quel momento, al pensiero che le nascondesse il segreto…
«Da dove?» chiese Azim in tono di sfida. «Ah, questo è l’importante, no? Pensi che oserebbe condurci al sacrario della Madre e del Padre? Se lo pensassi, gli risponderei. Oh, sì, davvero. Lascerei il mio tempio per trovarlo, naturalmente. Ma non può trarci in inganno. Preferirebbe venire annientato, piuttosto che rivelare quel rifugio.»
«Da dove chiama?» chiese lei, paziente.
«I sogni», insistette Azim oscurandosi. «I sogni delle gemelle! Ecco ciò che vorrei fosse spiegato!»
«E io ti direi chi sono e che cosa significano, se lo sapessi.» Lei pensò alle canzoni di Lestat, alle parole che aveva udito. Le canzoni parlavano di Coloro-che-devono-essere-conservati, e delle cripte sotto le città europee: canzoni di ricerca e di sofferenza. Non si accennava alle donne dai capelli rossi…
Furioso, Azim le indicò di tacere. «Il vampiro Lestat», disse con una smorfia. «Non parlarmi di questo abominio. Perché non è ancora stato annientato? Gli dèi delle tenebre dormono come la Madre e il Padre?»
La scrutò con aria calcolatrice. Lei attese.
«Sta bene, ti credo», disse finalmente Azim. «Mi hai detto ciò che sai.»
«Sì.»
«Chiudo i miei orecchi a Marius. Te l’ho detto. Ha rapito la Madre e il Padre, e può chiedere aiuto fino alla fine del tempo, per quel che m’interessa. Ma tu, Pandora… Ti amo come sempre e perciò mi degnerò di parlare di questa storia. Attraversa il mare e recati nel Nuovo Mondo. Cerca nel gelido nord, al di là degli ultimi boschi e presso il mare occidentale. Là, forse, troverai Marius imprigionato in una cittadella di ghiaccio. Grida di essere impossibilitato a muoversi. In quanto al suo monito, è vago non meno che persistente. Siamo in pericolo. Dobbiamo aiutarlo perché possa bloccarlo, perché possa raggiungere il vampiro Lestat.»
«Ah. Dunque è stato il giovane a far questo!»
Il brivido che la scosse fu violento, doloroso. Vide con gli occhi della mente i visi vacui della Madre e del Padre, mostri indistruttibili dalla forma umana. Guardò confusa Azim. Taceva: ma non aveva terminato, e lei attese che proseguisse.
«No», disse Azim con una voce più bassa che aveva perduto il tono tagliente della collera. «C’è un pericolo, Pandora, sì. Un grande pericolo, e non c’è bisogno che sia Marius ad annunciarlo. Riguarda le gemelle dai capelli rossi.» Era insolitamente serio e indifeso. «Questo lo so», disse, «perché ero già vecchio prima che Marius venisse creato. Le gemelle, Pandora. Dimentica Marius. E dai ascolto ai tuoi sogni.»
Pandora l’osservava ammutolita. Lui la guardò per un lungo istante; quindi i suoi occhi parvero rimpicciolire. Lo sentì allontanarsi da lei e da tutte le cose di cui avevano parlato. Finalmente, non la vide più.
Ascoltava i gemiti insistenti degli adoratori; aveva di nuovo sete, e voleva inni e sangue. Si voltò, si avviò per uscire dalla camera, quindi lanciò un’occhiata alle spalle.
«Vieni con me, Pandora! Unisciti a me, anche per un’ora soltanto!» La voce era ebbra, confusa.
L’invito la colse impreparata. Rifletté. Erano anni che non cercava l’apice del piacere. Pensò non solo al sangue ma anche all’unione momentanea con un’altra anima. E all’improvviso, ecco, ciò l’attendeva tra coloro che avevano scalato la catena montuosa più alta della terra per cercare quella morte. E pensò alla ricerca che l’attendeva per trovare Marius, e ai sacrifìci che avrebbe comportato.
«Vieni, carissima.»
Gli prese la mano. Si lasciò condurre fuori dall’anticamera fino al centro della sala affollata. Il fulgore della luce le ferì gli occhi. Sì, di nuovo il sangue. L’odore degli umani l’avvolgeva e la tormentava.
Le grida dei fedeli erano assordanti. Il calpestio dei piedi umani sembrava scuotere i muri dipinti e lo splendente soffitto d’oro. L’incenso le bruciava gli occhi. Un vago ricordo del sacrario, tanti anni addietro, di Marius che l’abbracciava. Azim le stava davanti; le tolse il mantello scoprendole il viso, le braccia nude, il semplice abito di lana nera, i lunghi capelli bruni. Pandora si vide rispecchiata in mille paia d’occhi mortali.
«La dea Pandora!» gridò Azim, rovesciando all’indietro la testa.
Un coro di urla si levò nel ritmo convulso dei tamburi. Innumerevoli mani umane l’accarezzarono. «Pandora, Pandora, Pandora!» Il canto si mescolava alle invocazioni del nome di Azim.
Un giovane bruno danzava davanti a lei, con la camicia di seta bianca incollata dal sudore al torace. Gli occhi neri brillavano sotto le sopracciglia scure e ardevano d’una sfida. Io sono la tua vittima! Dea! All’improvviso Pandora non vide più nulla nella luce guizzante e nel fragore morente, se non i suoi occhi, la sua faccia. Lo abbracciò, stritolandogli le costole nella fretta, gli affondò i denti nel collo. Vivo. Il sangue si riversò in lei, le arrivò al cuore e lo inondò, diffuse il tepore nelle sue membra fredde. Trascendeva ogni ricordo, quella sensazione favolosa… e il desiderio squisito! La morte la squassò, le mozzò il respiro: la sentì passare nel cervello. Era accecata, gemente. Quindi la chiarezza della visione divenne paralizzante. Le colonne marmoree vivevano e respiravano. Lasciò cadere il corpo e afferrò un altro maschio giovane, affamato e nudo fino alla cintola: la sua forza, sull’orlo della morte, la faceva impazzire.
Gli spezzò il collo fragile mentre beveva, e udì il proprio cuore gonfiarsi, sentì inondare di sangue anche la superficie della propria pelle. Vide il colore nelle sue mani prima di chiudere gli occhi; sì, mani umane, la morte più lenta, la resistenza, e quindi il cedimento in un afflusso di luci che si affievolivano e di suoni ruggenti. Vivo.
«Pandora! Pandora! Pandora!»
Dio, non c’è giustizia, non c’è una fine?
Rimase ritta, ondeggiando, facce umane che danzavano livide davanti a lei. Il sangue le ribolliva dentro e cercava ogni tessuto, ogni cellula. Vide la terza vittima avventarsi contro di lei, avvinghiarla con le membra esili, così morbidi i capelli, la lanugine sul dorso delle braccia, le ossa fragili così leggere, come se lei fosse l’essere reale e quelle non fossero altro che creature della sua immaginazione.
Staccò per metà la testa dal collo, fissò le vertebre bianche della spina dorsale, quindi trangugiò la morte con lo spruzzo violento di sangue eruttato dall’arteria lacerata. Ma voleva vedere e assaporare il cuore, il cuore palpitante. Ributtò il corpo sul braccio destro, facendo scricchiolare le ossa, e con la mano sinistra spezzò lo sterno, scardinò le costole, e insinuò la mano nella cavità calda e sanguinante per estrarre il cuore.
Non era ancora completamente morto. Era lucido come uva bagnata. I fedeli si accalcarono intorno a lei mentre lo teneva sopra la testa e lo strizzava delicatamente in modo che il sangue vivo le scorresse dalle dita nella bocca aperta. Sì, sì, per sempre.
«Dea! Dea!»
Azim la osservava e sorrideva. Ma Pandora non lo guardava. Fissava il cuore rattrappito mentre cadevano le ultime gocce di sangue. Una poltiglia. Lo gettò via. Le sue mani splendevano come mani vive, insanguinate. Lo sentiva nel viso, il calore fremente. Una marea di ricordi, di visioni incomprensibili. La scacciò. Questa volta non l’avrebbero asservita.
Prese il mantello nero. Sentì che la avvolgeva mentre le calde, sollecite mani umane le sistemavano la lana morbida sui capelli, intorno alla parte inferiore del volto. Ignorò le voci che invocavano il suo nome, si voltò e uscì, sfiorando accidentalmente i fedeli che barcollavano tutto intorno.
Nel cortile il freddo era delizioso. Inclinò leggermente la testa all’indietro, aspirò il vento vagabondo che soffiava nel recinto e ravvivava le fiamme delle pire prima di portarne via il fumo acre. Il chiaro di luna era puro e bellissimo mentre cadeva sui picchi innevati, oltre le mura.