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Lei mi diede la vita, Io le diedi la morte, Alla mia bella marchesa.
E sulla Strada del Diavolo ci avviammo, Insieme come due orfani.
E questa notte ode i miei inni di re e regine e antiche verità? Di voti infranti e sofferenze?
Oppure è avviata su un sentiero lontano, Dove le rime e il canto non possono trovarla?
Ritorna a me, mia Gabrielle, Mia bellissima marchesa. Il castello è in rovina in cima al colle, Il villaggio è sepolto dalla neve, Ma tu sei mia per sempre.

Dov’era la madre di Lestat?

La voce si spense in un sommesso zampillare di note elettriche che furono inghiottite dai rumori caotici. L’uomo si avviò nella brezza umida e raggiunse l’angolo. Era piacevole, quella viuzza affollata. Il fioraio vendeva ancora la sua mercé sotto il tendone. La macelleria era piena di gente che si recava a fare la spesa dopo il lavoro. Dietro le vetrate del caffè, i mortali consumavano il pasto della sera o indugiavano per leggere i giornali. Dozzine di persone attendevano l’autobus, e davanti al vecchio cinema di fronte s’era formata la fila.

Gabrielle era lì. Ne aveva la sensazione, vaga ma infallibile.

Quando arrivò sull’orlo del marciapiedi, si fermò con le spalle contro il lampione di ferro e respirò il vento fresco che scendeva dalla montagna. C’era una bella veduta della parte bassa della città, lungo l’ampia dirittura di Market Street. Ricordava un po’ un boulevard di Parigi. E tutto intorno, i dolci pendii urbani erano coperti dalle luci gaie delle finestre.

Sì: ma dov’era, esattamente? «Gabrielle», sussurrò. Chiuse gli occhi. Ascoltò. Dapprima gli giunse il rombo sconfinato di migliaia di voci, e le immagini si affollarono. L’intero mondo minacciava di schiudersi e di inghiottirlo con le sue lamentazioni incessanti. Gabrielle. Il clamore tonante si spense lentamente. L’uomo captò un lampo di sofferenza in un mortale che gli passava accanto. E in un edificio sulla collina, una donna morente sognava l’infanzia mentre stava seduta, apatica, alla finestra. Poi, nel silenzio fioco e costante, l’uomo vide ciò che desiderava vedere: Gabrielle che s’era fermata di colpo. Aveva udito la sua voce. Sapeva d’essere osservata. Era alta e bionda, con i capelli raccolti in un’unica treccia sulla schiena, e stava in una delle vie pulite e deserte della città bassa, non lontano da lui. Indossava giacca e pantaloni kaki e un logoro maglione color bruciato. E un cappello non dissimile dal suo, che le copriva gli occhi e lasciava visibile solo una parte del viso al di sopra del colletto rialzato. In quel momento Gabrielle chiuse la propria mente, circondandosi con molta efficienza d’una barriera invisibile. L’immagine svanì.

Sì, è qui in attesa del figlio, Lestat. Non aveva mai temuto per lei… creatura fredda che non aveva paura per sé, ma solo per Lestat. Bene. Era soddisfatto. Anche Lestat lo sarebbe stato.

Ma l’altro? Louis il gentile, con i capelli neri e gli occhi verdi, i passi dal suono noncurante, che fischiettava sommessamente nelle strade buie in modo che i mortali lo sentissero avvicinarsi. Louis, dove sei?

Quasi immediatamente vide Louis entrare in un salotto vuoto. Aveva appena salito le scale della cantina dove aveva dormito durante il giorno in una cripta. Non s’era accorto d’essere osservato. Attraversò con passi armoniosi la stanza impolverata e si fermò a guardare, oltre il vetro sporco, le macchine che transitavano. Era la stessa vecchia casa in Divisadero Street. In effetti non era cambiato molto per essere quell’elegante e sensuale creatura che aveva causato un piccolo tumulto con la sua storia in Intervista con il Vampiro. Ma adesso attendeva Lestat. Aveva fatto sogni sconvolgenti; temeva per Lestat ed era assillato da impulsi antichi e sconosciuti.

Con riluttanza lasciò svanire l’immagine. Aveva un grande affetto per Louis. E non era un affetto saggio perché Louis aveva un’anima tenera e colta, ma non aveva nulla del potere abbagliante di Gabrielle o del figlio diabolico di questa. Tuttavia poteva darsi che Louis sopravvivesse a lungo, tanto quanto loro: ne era certo. Erano strane e diverse le varie forme di coraggio che permettevano di durare. Forse avevano qualcosa a che fare con la rassegnazione. Ma come spiegare allora Lestat che, sconfìtto e straziato, era comunque risorto? Lestat che non s’era mai rassegnato a nulla?

Non s’erano ancora trovati, Gabrielle e Louis. Ma andava bene così. Cosa doveva fare? Farli incontrare? Solo l’idea… E poi, presto l’avrebbe fatto Lestat.

Ma l’uomo aveva ripreso a sorridere. «Lestat, sei la più dannata delle creature! Sì, un principino viziato.» A poco a poco rievocò ogni dettaglio del volto e della figura di Lestat. Gli occhi come il ghiaccio che si oscuravano nella risata, il sorriso generoso, le sopracciglia che si inarcavano in un cipiglio infantile, i lampi improvvisi di ottimismo e di spirito blasfemo. Riusciva a immaginare anche il portamento felino, così raro in un uomo dalla struttura muscolosa. Tanta forza, sempre tanta forza e quell’ottimismo insopprimibile.

Il fatto era che non sapeva come giudicare quella sorpresa: sapeva soltanto che era divertito e affascinato. Naturalmente non pensava a vendicarsi di Lestat perché aveva rivelato i suoi segreti. E sicuramente Lestat aveva contato su questo… ma non si poteva mai sapere. Forse non se ne curava affatto. E a questo proposito, lui non ne sapeva più di quanto ne sapessero gli sciocchi nel bar.

L’importante, per lui, era che per la prima volta, dopo tanti anni, si sorprendeva a pensare in termini di passato e futuro; si ritrovava acutamente consapevole della natura di quell’epoca. Coloro-che-devono-essere-conservati erano una favola perfino per i loro figli! Erano passati i giorni in cui i vagabondi bevitori di sangue cercavano il loro sacrario e il loro sangue possente. Nessuno credeva più in loro, nessuno se ne curava!

E in ciò stava l’essenza di quel tempo; i suoi mortali, di una schiatta ancora più pratica, rifiutavano il miracoloso in ogni forma e misura. Con un coraggio senza precedenti, avevano basato saldamente il loro più grande progresso etico sulle verità radicate nella realtà fìsica.

Erano trascorsi duecento anni da quando aveva discusso con Lestat degli stessi argomenti su un’isola del Mediterraneo… il sogno di un mondo senza dio ma veramente morale, dove l’amore per il prossimo fosse l’unico dogma. Un mondo nel quale non c’è posto per noi. E adesso quel mondo s’era quasi realizzato. E il vampiro Lestat era passato all’arte popolare, dove avrebbero dovuto finire tutti i vecchi diavoli, e dove avrebbe dovuto portare con sé l’intera tribù maledetta, inclusi Coloro-che-devono-essere-conservati, anche se forse non l’avrebbero mai saputo.

La simmetria di tutto ciò lo fece sorridere. Non soltanto provava soggezione, ma era anche sedotto dall’idea di ciò che aveva fatto Lestat. Poteva comprendere molto bene il richiamo della fama.

Ah, lo aveva smodatamente eccitato vedere il suo nome scarabocchiato sulla parete del bar. Aveva riso, ma quella risata gli aveva fatto piacere.

Bisognava riconoscere che Lestat era stato abilissimo nel costruire quel dramma così ispirato… e infatti di questo si trattava. Lestat, l’attore boulevardier dell’Ancien regime, asceso al ruolo di star in quell’era splendida e innocente.

Ma aveva avuto ragione nel suo discorsetto al novellino, nel bar, quando aveva detto che nessuno poteva annientare il principino viziato? Era una pura invenzione. Un’ottima pubblicità. Il fatto è che ognuno di noi può venire annientato… in un modo o nell’altro. Inclusi Coloro-che-devono-essere-conservati, senza dubbio.

Erano deboli, naturalmente, i novellini «Figli delle tenebre», come si autodefinivano. Il numero non ne accresceva la forza in modo significativo. Ma… e i più vecchi? Se almeno Lestat non avesse usato i nomi di Mael e Pandora. Ma non c’erano bevitori di sangue ancora più vecchi, dei quali persino lui non sapeva nulla? Pensò al monito sul muro: «Esseri vecchissimi e terribili… che potrebbero avanzare lentamente e inesorabilmente per rispondere al suo appello».