Entrò nell’ascensore d’acciaio e premette il pulsante. Il ronzio elettronico e l’improvvisa perdita del senso di gravita gli diedero un vago piacere sensuale. Il mondo del presente era pieno di tanti suoni che prima nessuno aveva mai udito. Era molto gradevole. E poi c’era la piacevole facilità di precipitare per decine di metri in un pozzo scavato nel ghiaccio compatto per raggiungere le camere sottostanti, illuminate elettricamente.
Aprì la porta ed entrò nel corridoio dal pavimento coperto di tappeti. Era di nuovo Lestat che cantava nel sacrario, una canzone più rapida e gioiosa, mentre la voce battagliava con un rullo di tamburi e con i convulsi gemiti elettronici.
Ma c’era qualcosa che non andava. I battenti erano spalancati. Com’era possibile? Lui solo conosceva il codice per la minuscola serie di pulsanti. La seconda coppia di battenti era aperta, e così pure la terza. In effetti poteva vedere il sacrario, anche se la visuale era in parte ostacolata dal muro di marmo bianco della piccola alcova. I lampi rossi e azzurri del teleschermo erano come la luce di un vecchio camino a gas.
E la voce di Lestat echeggiava possente tra i muri marmorei e i soffitti a volta.
Trasse un respiro lento e profondo. Non c’era altro suono oltre a quello della musica, che ora si dissolveva per lasciare il posto allo scialbo chiacchiericcio dei mortali. E lì non c’erano estranei. No, se ne sarebbe accorto. Non c’era nessuno nel suo covo. L’istinto glielo confermava con certezza.
Una fìtta dolorosa gli trapassò il petto. Una vampata di caldo gli salì al volto. Straordinario.
Attraversò le anticamere di marmo e si fermò sulla soglia dell’alcova. Stava pregando? Oppure sognava? Sapeva che cosa avrebbe veduto tra poco… Coloro-che-devono-essere-conservati. Li avrebbe visti come erano da sempre. E ci sarebbe stata una spiegazione semplice per le porte, un corto circuito o una valvola saltata.
Eppure non provava paura, ma solo l’emozione che prova il giovane mistico sull’orlo di una visione, in procinto di vedere finalmente il dio vivente o di trovarsi sulle mani le stigmate sanguinanti.
Con calma entrò nel sacrario.
Per un momento non si rese conto. Vide ciò che si aspettava di vedere, la lunga sala piena di alberi e di fiori, la panca di pietra che fungeva da trono e più oltre il grande schermo televisivo che palpitava d’occhi e di bocche e di risate prive d’importanza. Poi prese atto della realtà. C’era una sola figura seduta sul trono, ed era quasi del tutto trasparente! I colori violenti del teleschermo lontano l’attraversavano.
No, questo è impossibile. Marius, guarda attentamente. Persino i tuoi sensi non sono infallibili… Come un mortale sconcertato si prese la testa fra le mani per escludere ogni distrazione.
Fissava il dorso di Enkil che, a parte i capelli neri, era divenuto una sorta di statua di vetro opalescente attraverso la quale i colori e le luci si muovevano con una lieve distorsione. All’improvviso un bagliore fece sì che la figura diventasse la sorgente di fiochi raggi danzanti.
Scosse la testa. Non era possibile. Poi si scrollò. «Bene, Marius», si disse. «Procedi lentamente.»
Ma una dozzina di dubbi informi gli turbinava nella mente. Qualcuno era venuto lì, qualcuno più vecchio e più potente di lui, qualcuno che aveva scoperto Coloro-che-devono-essere-conservati e aveva fatto qualcosa d’indicibile! E tutto ciò era opera di Lestat! Lestat che aveva rivelato al mondo il suo segreto.
Gli tremavano le ginocchia. Incredibile! Non aveva provato simili debolezze mortali da tanto di quel tempo che ormai le aveva dimenticate. Prese dalla tasca un fazzoletto di lino e asciugò il velo di sudore sanguigno che gli copriva la fronte. Si avviò verso il trono, gli girò intorno e si trovò davanti alla figura del re.
Enkil era quale era stato per duemila anni, con i capelli neri stretti in lunghe trecciole sottili che gli cadevano sulle spalle. L’ampio collare d’oro spiccava sul petto glabro, il gonnellino di lino era immacolato e pieghettato con cura e gli anelli ornavano ancora le dita inerti.
Ma il corpo era vetro! Ed era completamente vuoto. Persino i grandi globi degli occhi erano trasparenti, e soltanto i cerchi indistinti definivano le iridi. No, un momento. Doveva osservare tutto. Là si vedevano le ossa, trasformate nella stessa sostanza della carne, la rete finissima delle vene e delle arterie e qualcosa di simile ai polmoni, ma ormai era tutto trasparente, tutto aveva la medesima consistenza. Che cosa gli avevano fatto?
E l’essere non aveva ancora concluso la metamorfosi. Sotto i suoi occhi stava perdendo i riflessi lattiginosi. Si prosciugava e diventava ancora più trasparente.
Lo toccò, incerto. Non era vetro. Era un guscio.
Ma quel gesto imprudente aveva sconvolto la cosa. Il corpo vacillò e poi cadde sulle lastre marmoree con gli occhi sbarrati, le membra irrigidite nella posizione precedente. Quando si abbandonò, emise un suono simile al frinire di un insetto.
Solo i capelli si muovevano. I morbidi capelli neri. Ma erano cambiati anch’essi. Si spezzavano in frammenti, in minuscole schegge lucenti. Una corrente fresca li disperdeva come fili di paglia. E quando i capelli si staccarono dalla gola, scorse due ferite scure, due trafitture. Due ferite che non erano guarite come avrebbero potuto guarire perché tutto il sangue risanatore era stato sottratto all’essere.
«Chi ha fatto questo?» mormorò a voce alta, stringendo il pugno destro come se questo potesse impedirgli di urlare. Chi poteva avergli sottratto l’ultima goccia di vita?
E l’essere era morto. Non c’erano dubbi. Cosa rivelava quell’orribile spettacolo?
Il nostro re, nostro Padre, è stato annientato. E io vivo ancora e respiro. E ciò può significare soltanto che lei racchiude in sé il potere primordiale. Lei fu la prima, ed è sempre risieduto in lei. E qualcuno gliel’ha tolto!
Cerca nel sotterraneo. Cerca nella casa. Ma erano pensieri frenetici e folli. Nessuno era entrato lì, e lo sapeva. Una sola creatura poteva averlo fatto! Una sola creatura poteva sapere che una cosa simile era finalmente possibile.
Non si mosse. Fissò la figura distesa sul pavimento e la guardò perdere l’ultima traccia di opacità. Avrebbe voluto piangere per quell’essere, poiché qualcuno doveva farlo. Ormai era sparito con tutto ciò che aveva conosciuto, tutto ciò cui aveva assistito. Anche questo era giunto alla fine. Sembrava trascendere la sua capacità di accettarlo.
Ma non era solo. Qualcuno o qualcosa era appena uscito dall’alcova, e sentiva che lo stava osservando.
Per un momento, un momento chiaramente irrazionale, tenne lo sguardo sul re caduto. Tentò di comprendere con tutta la calma possibile ciò che accadeva intorno a lui. Ora la cosa gli si avvicinava senza il minimo suono, stava diventando un’ombra aggraziata nell’angolo della sua visuale, mentre girava intorno al trono e si fermava al suo fianco.
Sapeva chi era, chi doveva essere, e sapeva che si era avvicinata con l’atteggiamento naturale di un essere vivente. Eppure quando alzò gli occhi nulla l’aveva preparato per quel momento.
Akasha era ritta a pochi centimetri da lui. La pelle era bianca e dura e opaca com’era sempre stata. La guancia splendeva come la madreperla mentre sorrideva, e gli occhi scuri erano umidi e vivi, mentre le palpebre si contraevano leggermente. Brillavano di vitalità.
L’osservò ammutolito. Restò a osservarla quando lei alzò le dita ingioiellate per toccargli la spalla. Chiuse gli occhi e li riaprì. Nel corso dei millenni le aveva parlato in tanti linguaggi, preghiere, suppliche, lamenti, confessioni, ma adesso non diceva una parola. Si limitava a guardare le labbra mobili, il lampo dei denti candidi e acuminati, e la luce fredda del riconoscimento negli occhi, la morbida fossetta del seno che si muoveva sotto la collana d’oro.