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Sopra di lei, le persone si allontanarono.

Aspettò alcuni minuti dopo avere avvertito l’ultima vibrazione nel ponte. Pronunciò quindi il codice per fare tornare indietro l’estensione e quello per farla richiudere.

Sul lato est del ponte la ferrovia a gravità si divideva. Una linea procedeva a sud, lungo la costa occidentale di Manhattan, su una stretta striscia di terra fra il fiume e la cupola dell’Enclave di Manhattan Ovest. L’altra deviava a nord, schivando l’enclave e andando a finire a Central Park. Da quella parte, Lizzie lo sapeva, c’erano le rovine della New York dei Vivi. Ormai non ci vivevano più molte persone: cemespugna rotta e pietre cadute non fornivano molto come cibo. Quelli che erano rimasti erano pericolosi.

Non aveva scelta. Era la via per arrivare al dottor Aranow.

Avvolta nello scudo personale, Lizzie si nascose sotto un folto cespuglio fino al mattino. Si sentiva abbastanza sicura di non essere vista, ma non riuscì ad addormentarsi per lungo tempo.

Alla luce del giorno, New York era anche peggio di quanto si fosse immaginata.

Non aveva mai visto nulla del genere. Sì, invece, in quegli ologrammi di storia che Vicki aveva insistito che lei studiasse nel software istruttivo, prima che Lizzie fosse abbastanza grande da puntare i piedi e studiare solo quello che desiderava. Gli ologrammi avevano mostrato posti proprio come quello: ammassi bruciati e crollati di macerie ricoperti da erbacce. Strade così intasate che non si poteva essere sicuri di quale direzione avevano avuto un tempo. Metallo contorto disseminato in giro, separato da aree color nero trasparente nei punti in cui determinate armi avevano levigato tutto, fondendolo. Lizzie aveva sempre immaginato che quegli ologrammi fossero fasulli, come il software di letteratura che le aveva fatto guardare Vicki. O se non completamente fasulli quanto meno esagerati.

Quella città in pezzi invece era vera.

Lei si mosse con circospezione attraverso le orribili rovine, in ascolto. In qualche occasione udì delle voci. Si nascose immediatamente, tremando, finché gli uomini non si allontanarono. Non li vide mai e ne fu più che felice.

C’erano persone che abitavano in alcuni edifici mezzo crollati. Vide una donna portare acqua dal fiume, un uomo intrecciare una corda, un bambino Cambiato inseguire una palla. Quindi un bambino nonCambiato, in braccio a una ragazzina di dieci anni.

La ragazzina Cambiata era sudicia, mezza nuda, coi capelli sporchi per la polvere dei detriti. Però la pelle le risplendeva di salute e lei si arrampicò con forza su un cumulo di macerie, col piccolo avvinghiato al petto. Lui… lei?… sembrava avere circa un anno, l’età della figlia di Sharon, Callie. Le sue gambette, tuttavia, avevano un aspetto raggrinzito e debole, il ventre era gonfio e le braccia assomigliavano a bastoncini. Una ferita aperta sulla gamba lasciava colare del pus. Quando la ragazzina lo adagiò a terra, il piccolo si lamentò e sollevò le braccine che, quasi immediatamente, gli ricaddero lungo i fianchi.

Ecco che aspetto avrebbero avuto ben presto tutti i bambini, se Miranda Sharifi non avesse prodotto altre siringhe del Cambiamento e se il Rifugio avesse diffuso il neurofarmaco. Proprio così.

La ragazzina tirò in piedi il piccolo che subito ricadde. Le sue ossa non avevano alcuna forza.

Lizzie si allontanò dai due. Sarebbe stato meglio aspettare finché non si fossero ritirati dalla zona, ma lei non riuscì a sopportare di restare lì. Con grande attenzione, si fece strada attraverso Manhattan, orientandosi con la ferrovia a gravità anche quando dovette deviare a nord per evitare alcune persone. A sud, davanti a lei e alle sue spalle, riusciva a scorgere le toni di Manhattan Ovest e Manhattan Est, separate dall’immensa distesa del parco. Le torri scintillavano alla luce del sole e brillanti chiazze di colori modificati geneticamente rifiorivano sulle loro terrazze all’interno delle cupole a energia-Y dell’enclave. I velivoli entravano e uscivano da porte invisibili nella cupola invisibile.

A metà pomeriggio, aveva raggiunto la porta terrestre settentrionale dell’Enclave di Manhattan Est.

Era circondata da una specie di villaggio-in-rovina-all’interno-della-città-in-rovina. Di quelli che Lizzie immaginò fossero gli edifici originali in cemespugna, la metà era intatta e vuota, ancora circondata da scudi impenetrabili. L’altra metà era ridotta in macerie, incendiata, bombardata o abbattuta da pura e semplice forza bruta. Attorno e in mezzo agli edifici, la gente aveva costruito baracche con assi di legno, macerie di cemespugna, teli di plastica e perfino robot guasti. Be’, ogni tribù si accontentava di quello che riusciva a trovare. Quelle baracche, tuttavia, a loro volta erano distrutte o rovinate, alcune rappezzate, altre no, come se lì ci fosse stata una seconda Guerra del Cambiamento, una terza e poi una quarta.

Lizzie non vide persone, ma sapeva che c’erano: un falò da campo spento con le ceneri non ancora smosse; un sentiero ben tracciato libero da erbacce; un mazzo di fiori selvatici non ancora avvizziti, gioco di qualche bambino; cosa più sconcertante di tutte, una fotografia incorniciata di un uomo con abiti molto all’antica coi polsini e il colletto inamidati, che teneva in mano una specie di libro incastonato. Ma com’era arrivata lì quella? Restò nascosta, tenendo d’occhio la porta di entrata dell’enclave e aspettò.

All’improvviso suonò un segnale d’allarme.

Le persone sfrecciarono subito fuori dai nascondigli e da dietro i detriti, dalle baracche e perfino da un tunnel sotterraneo. Vivi, ma vestiti come Lizzie non aveva mai visto. Indossavano abiti da Muli: stivali, piccole camicie attillate, pantaloni, cappotti eleganti. Il tutto, però, a brandelli: nessuno aveva un vestiario completo. Le persone, donne, bambini e qualche uomo, non apparivano pericolose. Si radunarono attorno alla porta di ingresso dell’enclave e il segnale risuonò nuovamente.

Se Lizzie voleva vedere ciò che accadeva, doveva per forza unirsi a loro. Si avvicinò alla piccola folla con estrema cautela. Puzzavano, ma nessuno la degnò di attenzione. Quindi non erano una vera tribù dove tutti si conoscevano e restavano insieme. Erano solo un pugno di persone. Lei riuscì a raggiungere il fronte del gruppo.

La cupola dell’enclave era di colore grigio opaco fino a circa cinque metri di altezza, trasparente di lì in poi. Probabilmente i residenti non volevano essere guardati dai Vivi che rovinavano la visuale dei loro magnifici giardini. La porta, un profilo nero sul campo energetico grigio, scomparve all’improvviso. Tutti si misero a correre all’interno dell’enclave.

Non poteva essere così facile!

Non lo era. Dentro c’era una seconda cupola sigillata, piena di… cosa? Pile di vestiti, scatoloni di roba. Lizzie notò una bambola con la testa rotta, qualche piatto, una scatola in legno graffiata, alcune coperte. A quel punto comprese: i Muli dell’Enclave di Manhattan Est davano via le cose che non volevano più.

La gente cominciò a strappare roba dalle scatole, dai cumuli di oggetti, dalle mani di altri. Ci furono un po’ di spintoni, ma nessuna vera lotta. Lizzie osservò con attenzione, cercando di assimilare tutto, sia la struttura della cupola, sia i resti. Vestiario, quadri, giocattoli, lenzuola e coperte, vasi da fiori, mobili, oggetti in plastica. Nulla di elettronico o a energia-Y, nulla che potesse diventare un’arma. In tre minuti la cupola venne spogliata interamente e tutti i Vivi scapparono con i nuovi stracci.

Lizzie aspettò, mentre il cuore cominciava a martellarle in petto.

— Per favore, adesso lasciate la cupola — disse la voce severa di un robot. — La consegna di oggi è terminata. Per favore, adesso lasciate la cupola.

Lizzie restò dove si trovava, sfiorando con le dita il suo scudo personale.