— Tess, aspetta, sembri strana, non sembri tu…
— Non lo sono — rispose Theresa. Spalancò gli occhi e per un momento "sorrise". Era la cosa più sconcertante che Jackson avesse visto in quella sconcertante giornata.
Theresa aggiunse con una voce che non sembrava completamente sua: — Il pilota ha detto che abbiamo preso duecentoquaranta rad. — A quel punto lo schermo si spense.
— Gesù Cristo — disse piano Vicki. — Sarà sufficiente a ucciderla?
— Forse no, ma starà malissimo. Devo andare.
— E Cazie?
— Che vada al diavolo — sbottò Jackson e vide Vicki sorridere, rendendosi conto, proprio come Vicki, che non parlava sul serio. Forse, però, un giorno sarebbe stato così. Nel frattempo, Cazie avrebbe investito un forte capitale senza il consenso suo o di Theresa. Il che, quanto meno, era meglio di niente.
Anche se non era abbastanza.
16
Quando Lizzie si svegliò, Vicki non era ancora tornata.
Era facile sapere chi si trovava nell’accampamento e chi no. Tutti si raggruppavano nello stesso momento per la colazione sotto la tenda del campo di alimentazione e tutti giacevano o sedevano nello stesso posto. Alcuni, Norma Kroll, Nonna Seifert, Sam Webster… si mettevano perfino nella stessa posizione. Un giorno dopo l’altro. Nella tribù si parlava piano mentre ci si nutriva e poi tutti lasciavano il terreno di alimentazione nello stesso ordine, accingendosi alle stesse faccende: recuperare suolo nuovo con nutrienti non sfruttati; ripulire l’edificio; occuparsi dei bambini che giocavano agli stessi giochi negli stessi luoghi; creare oggetti di legno o di stoffa oppure recuperare il legno dalla foresta e la stoffa dal robot tessitore. Un giorno dopo l’altro.
Pranzo alla stessa ora, negli stessi posti.
Fare appisolare i bambini, eseguire lavoretti, guardare ologrammi, prendere acqua, giocare a carte o fare ginnastica. Cena negli stessi posti, sotto la tenda. Gli stessi racconti alla sera, quando l’aprile insolitamente freddo costringeva a restare all’interno. Sarebbero rimasti dentro anche in giugno o in agosto vista la routine di aprile?
— Non lo sopporto più — aveva detto Lizzie a sua madre. Annie le aveva risposto: — Sei sempre stata troppo impaziente, tu. Goditi il tempo, Lizzie. Tutto è sicuro e tranquillo. Non vuoi pace, tu, per il tuo bambino?
— Non così! — aveva gridato Lizzie, ma Annie aveva solo scosso la testa ed era tornata all’arazzo che stava preparando con stoffa tessuta, sassolini e fiori secchi. Quando fosse finito, pensò Lizzie con disperazione, ne avrebbe iniziato un altro. Alle dieci lei e Billy sarebbero andati a letto perché quello era il loro orario. Probabilmente facevano l’amore le stesse sere ogni settimana. Di certo era quello che facevano Shockey e Sharon nel loculo accanto al suo. Martedì e sabato sera e domenica pomeriggio.
Quando c’era stata Vicki nell’accampamento, quanto meno, lei aveva avuto qualcuno con cui parlare. Vicki era tesa, agitata, frustrata, imprevedibile. Vicki era vera. Camminava sui sentieri dei boschi, col fango attaccato agli stivali, parlando delle proprie paure e della propria speranza. A volte a Lizzie sembrava che Vicki non fosse in grado di distinguere le une dall’altra.
— Dobbiamo aspettare Jackson — aveva detto Vicki, picchiando un pugno sul palmo dell’altra mano. — Per quanto mi secchi, lui e il detestabile suo amico ricercatore, Thurmond Rogers, sono la sola via per andare alle radici mediche del problema, Lizzie. Si tratta di un problema medico e può essere combattuto meglio con un modello medico. Non so come, la chimica del cervello si è modificata e noi…
— Aspetta — aveva detto Lizzie. — "Aspetta!"
Vicki l’aveva guardata.
— Non è soltanto un problema medico, lui. — Sentiva il proprio linguaggio scivolare in quello dei Vivi e le dava un fastidio d’inferno. Non avrebbe mai imparato? — È anche una questione politica. "Qualcuno" lo sta facendo! Non è successo spontaneamente!
— Già è ovvio, hai ragione. Ma non possiamo agire direttamente sulla causa. Ci abbiamo provato con le elezioni, ricordi? Il massimo che possiamo sperare è riuscire a manipolare i risultati. Forza Jackson… "chiama!"
E apparentemente, alla fine, Jackson doveva avere chiamato visto che Vicki era sparita. Era nella magnifica casa di Jackson a Manhattan Est? Alla Kelvin-Castner a Boston? Lizzie non lo sapeva.
La cosa peggiore comunque era Dirk.
— Guarda, Dirk, una tamia!
Quel pomeriggio aveva portato un po’ il piccolo nei boschi selvatici primaverili, vestito con la calda tuta invernale, la frangetta di ciuffi scuri che gli cadeva sulla fronte sotto lo sgargiante cappuccio rosso. Per tutta la durata del breve cammino, Dirk aveva nascosto la testa contro la spalla di Lizzie e si era rifiutato di sollevare lo sguardo. Lei lo aveva costretto con dolcezza ad alzare gli occhi.
— Guarda la tamia! Scappa, scappa!
La creaturina si era fermata a circa sei metri di distanza, li aveva guardati con espressione perplessa e si era seduta sulle zampe posteriori con la coda vaporosa arricciata in alto alle spalle. Aveva preso una noce e aveva cominciato a mordicchiarla, con la testa che ondeggiava comicamente dietro le zampette anteriori sollevate. Dirk l’aveva guardato e aveva cominciato a gridare terrorizzato.
— Smettila! Smettila, maledizione! — aveva gridato a sua volta Lizzie e si era subito avvilita, spaventandosi. Che cosa stava facendo? Dirk non poteva farci nulla! Lo strinse forte e corse in fretta verso l’edificio. Annie sollevò lo sguardo dall’arazzo.
— Lizzie! Dove hai portato quel bambino, lui?
— A fare una fottuta passeggiata! — Lei si era sentita di nuovo furiosa: Dirk, nell’ambiente che gli era familiare, aveva smesso di piangere. Il piccolo vide sul pavimento i blocchi che Billy gli aveva fatto per giocare, i blocchi con cui aveva sempre giocato in quel momento del pomeriggio e si mise a scalciare perché Lizzie lo mettesse a terra.
Annie la ammonì: — Bada a come parli, tu. Vieni dalla nonna, Dirk, è il momento di giocare coi blocchi, vero? Vieni dalla nonna.
Il bimbo smise di piangere. Cominciò allegramente a mettere i blocchi l’uno sull’altro. Annie gli sorrise dalla seggiola.
Lizzie venne colta dalla disperazione.
— Dove vai adesso, piccola mia? — chiese Annie. — Siediti, tu, e parla un po’ con me.
— Torno fuori.
Gli occhi scuri di Annie si allarmarono. — No, resta qui, tu. Lizzie, siediti qui con me e Dirk.
Lizzie sfrecciò verso la porta.
Il sole era uscito da dietro le nuvole grigie. Lei cominciò a camminare senza una meta, sarebbe andata da qualunque parte pur di allontanarsi dalla monotonia placida e sicura che si era lasciata alle spalle, che sarebbe andata avanti un giorno dopo l’altro, finché non fossero morti tutti.
Percorrendo il sentiero sulla montagna, scalciò i rametti fatti cadere dai venti invernali. Quel sentiero sarebbe risultato sempre meno utilizzato, a meno che camminarci sopra non facesse parte dell’abitudine di qualcuno. Il neurofarmaco si sarebbe diffuso? Forse sarebbe stata contagiata anche lei, Lizzie, se fosse stato rilasciato una seconda volta. E non gliene sarebbe importato nulla, quella era la cosa peggiore: sarebbe diventata come Annie, contenta per la sua pace e la sua tranquillità.
Lizzie si fermò e dette un pugno contro un arbusto di betulla. "No." Lei aveva diciotto anni e non poteva semplicemente "cedere". Non lo aveva mai fatto, in tutta la vita. Doveva esserci per forza qualcosa che lei poteva fare. Doveva esserci.
Ma che cosa?
Non poteva cercare un antidoto per il neurofarmaco: lo stavano già facendo Jackson, Vicki e Thurmond Rogers. Non poteva nemmeno impegnarsi in una nuova elezione: visto come erano diventate le persone, c’erano ancora meno possibilità di prima di riuscire a convincere la gente a votare per un candidato Vivo. Tutto era tornato decisamente a favore del candidato Mulo!