A quel punto disse al sistema: — Thomas, fai emanare da Jones una chiamata a priorità assoluta a mio fratello alla Kelvin-Castner!
— Lo farò subito, Theresa.
Tuttavia fu Cazie, scompigliata e corrucciata, che rispose. — Tess? Cosa c’è che non va? Perché una chiamata di emergenza?
— Ho bisogno di parlare con Jackson.
— Lo so. Ma perché? — Cazie faceva tamburellare le dita su una scrivania invisibile. I capelli neri avevano bisogno di una spazzolata e lei aveva borse sotto gli occhi. Appariva tesa e sconvolta.
Theresa si ritirò contro i cuscini.
— È… privato.
— Privato? Ti senti bene?
— Sì… io… sì. Riguarda qualcun altro.
Lo sguardo di Cazie si concentrò all’improvviso, tagliente. — Chi altri? È arrivato un messaggio per Jackson? Non si tratta di qualcosa riguardo al Rifugio, eh?
— Rifugio? Perché mai Jackson dovrebbe ricevere un messaggio riguardante il Rifugio?
Lo sguardo di Cazie si velò di nuovo. — Niente. Da parte di chi è il messaggio?
— Cos’è questa storia del Rifugio?
— Niente, Tessie. Ascolta, non volevo trattarti male, visto che sei così malata. Torna a dormire, piccola. Jackson è nel bel mezzo di una riunione importante e io non voglio interromperlo, ma gli dirò che hai chiamato. A meno che non si tratti di qualcosa di importante che tu voglia dire a me perché io gliela riferisca. Theresa fissò Cazie negli occhi. Lei le stava mentendo. Theresa lo sapeva. Come? Quello non lo sapeva. Sì, invece. Theresa aveva finto di essere Cazie e ormai riusciva a distinguere quando Cazie stava fingendo. Uno spostamento della voce, un’espressione negli occhi dorati: Jackson non era in riunione. Quindi Cazie voleva tenere Theresa lontana da Jackson. E voleva tenerla lontana da qualcosa che riguardava il Rifugio. Cazie, poi, non aveva mai apprezzato che Jackson aiutasse quella ragazza, Lizzie, e il suo bambino…
— No, no — disse con un filo di voce. — Niente di importante. Soltanto un messaggio da parte di… Brett Carpenter. Quello con cui Jackson gioca a tennis. Per una partita.
— Ma hai detto che si trattava di un’emergenza.
— Io… avevo voglia semplicemente di parlare con Jackson. Mi sento un po’ sola.
Il volto di Cazie si addolcì. — È ovvio che sia così, Tessie. Ti farò chiamare da Jackson nel momento stesso in cui terminerà la riunione. Inoltre verrò questa sera a trovarti. Te lo prometto.
— Va bene. Grazie.
— Adesso riposa come una brava bambina e tutto andrà meglio. — Il collegamento si interruppe.
— Thomas — disse Theresa. — Segnalazione da notiziari, ultime ventiquattro ore. Qualsiasi cosa riguardante il Rifugio.
Non ebbe bisogno di segnalazioni. Lo schermo si attivò sulla notizia del momento, e Theresa vide l’ologramma del Rifugio che saltava in aria, ascoltò il cronista scioccato, seguì la simulazione della traiettoria del missile, udì la condanna infuriata del Presidente Garrison contro i terroristi nucleari ancora senza nome.
— Ripetere — disse Theresa a Thomas. La parola le uscì dalla bocca come un sussurro strozzato e le lacrime salate le bruciarono la pelle ustionata dalle radiazioni. Il notiziario venne ripetuto.
Dunque erano tutti morti. Miranda Sharifi: morta a La Solana, con gli strani e inumani Super che avevano trasformato l’umanità in qualcosa di diverso. Jennifer Sharifi: morta al Rifugio, con il suo brillante, potente popolo che controllava gran parte del denaro di tutto il mondo, in modi che Theresa non aveva mai compreso. Leisha Camden: morta sette anni prima in una palude della Georgia. Tutti morti. Tutte le persone modificate geneticamente in modo da non dover mai dormire, tutte le persone che, diceva Jackson, erano considerate il gradino successivo nell’evoluzione. Tutti morti.
Lizzie Francy e il suo bambino, però, erano vivi. In prigione nell’Enclave di Manhattan Est. "Dillo al dottore! Dillo a Vicki! Venite a prendermi…"
Theresa non era in grado di farlo. Era troppo debole, troppo spaventata.
"La prego, dica al dottor Aranow e a Vicki Turner di venire a prendermi immediatamente, è un’emergenza!"
Ci sarebbe riuscita lei, se fosse divenuta Cazie.
Theresa chiuse gli occhi. Le lacrime smisero di scendere. Jackson non aveva idea, nessuno lo sapeva, di quante volte durante il mese passato Theresa era divenuta Cazie. Stesa sul letto, piena di dolori nonostante gli antidolorifici, lottando per seguire il programma di riabilitazione, costringendosi a pensare all’esplosione a La Solana senza farsi prendere dal panico o da attacchi di ansia. Theresa si era allenata a essere Cazie. A essere una persona che non aveva paura, in grado di decidere cosa fare e poi di farlo.
In quel momento divenne Cazie.
Gradatamente, il respiro di Theresa rallentò. Le mani smisero di tremarle. Cosa più importante, sentì la differenza nella propria testa. Come cambiare canali dei notiziari. Il suo cervello le dava sensazioni diverse. Era possibile? Ma era proprio ciò che provava.
Theresa appoggiò a terra le gambe e allungò le mani per prendere le stampelle. Il roboinfermiere le fluttuò a lato. — Ha bisogno di aiuto, signorina Aranow? Non preferirebbe usare la padella?
— No. Disattivare — disse Theresa, e la parte di lei che era ancora Theresa… c’era sempre quella parte, soltanto che se ci pensava troppo le faceva perdere la parte che non lo era, si accorse dell’espressione decisa del tono. Il tono di Cazie con la voce ancora roca di Theresa.
"Non pensarci."
Lottò per uscire dalla camicia da notte e per infilarsi un vestito. Le pendeva sul corpo scheletrico. Scarpe, giacca. Nell’ingresso colse un’occhiata di se stessa allo specchio.
"No." Oh, Dio, no. Quella testa calva, era sua? Occhi infossati, pelle bruciata sopra il cranio: tutto suo? Riprese a piangere.
No. Cazie non avrebbe pianto. Cazie avrebbe saputo che si trattava di una cosa temporanea, che stava guarendo. Lo diceva sempre Jackson: Cazie si sarebbe messa un cappello. Theresa ne prese uno di Jackson e se lo calzò fin sopra le orecchie.
— Prigione di Manhattan Est, verificare coordinate — disse al robotaxi che l’edificio aveva chiamato per lei; assunse un’espressione truce come quella di Cazie. Aveva aspettato il robotaxi per quasi un quarto d’ora ma era riuscita sempre a rimanere Cazie.
— Sì, signorina Aranow — rispose il robotaxi. Theresa oscurò i finestrini e chiuse gli occhi per non vedersi nel riflesso dei vetri.
Il robotaxi la lasciò davanti a un edificio vicino alla parete orientale dello scudo dell’enclave. Qualche persona che stava camminando in fretta si fermò sul marciapiede, fissandola. Theresa ignorò tutti. Mento in alto, mani serrate strette insieme, disse all’analizzatore di retina nell’atrio deserto: — Sono Theresa Aranow. Sono qui per vedere un… un prigioniero. Lizzie Francy. Oppure chiunque sia il responsabile, qui.
— Lei non è registrata come avvocato, signorina Aranow — rispose l’edificio. — E nemmeno come parente stretta del prigioniero.
— No, io sono… potrei parlare con un essere umano, per favore?
— Mi dispiace, siamo in stato di emergenza. Tutto il personale della Patterson Protect è stato stanziato altrove. Vuole aspettare?
Stato di emergenza. Ovvio. L’attacco al Rifugio. Le persone avevano paura che la bomba successiva cadesse su New York. Se lei non avesse oscurato i finestrini del robotaxi si sarebbe accorta di tutta la gente che abbandonava l’enclave in volo. Non c’era da meravigliarsi che al suo edificio fosse occorso tanto tempo per procurarle un robotaxi. E forse anche la gente dall’aria sconcertata che aveva visto all’esterno non era stata colpita tanto dal suo aspetto bizzarro quanto dalla propria paura. La cosa le tirò su il morale.