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Non molto, a lei. Parecchio, forse, a quelli che parlavano con lei.

"Sta’ ferma" si disse. "Ascolta. Ascolta quello che hanno da dire."

L’aria era secca a quell’altezza, fredda all’ombra, calda al sole. Si fermò in una tavola calda vicino al Magistero per comprare una bottiglia di succo di frutta e si sedette a bere a un tavolino all’aperto. Musica allegra, esortazioni, notizie sul raccolto, statistiche sulla produzione, programmi sanitari, diffusi in rutta la piazza dagli onnipresenti altoparlanti. In qualche modo, Sutty doveva imparare ad ascoltare in mezzo a quel rumore, cogliere quello che nascondeva, il significato nascosto.

Il suo significato era per caso la sua continuità? Gli akani avevano paura del silenzio?

Nessuno, attorno a lei, sembrava avere paura di nulla. Erano studenti, con le uniformi verdi e ruggine dell’Istruzione. Molti avevano gli zigomi prominenti e l’ossatura delicata dei vecchi del posto, ma erano lustri e floridi, sprizzavano giovinezza e sicurezza, chiacchieravano e gridavano intorno a lei senza vederla. Per loro, qualunque donna oltre la trentina era un’aliena.

Stavano mangiando il tipo di cibo che lei aveva mangiato nella capitale, roba trattata ad alto contenuto proteico, e bevevano akakafi, una bevanda calda locale ribattezzata con un nome semiterrestre. La marca di akakafi dell’Azienda si chiamava Stardrink ed era onnipresente. L’akakafi era agrodolce, nero, conteneva uno straordinario miscuglio di alcaloidi, stimolanti e sostanze depressive. Sutty ne detestava il sapore, le impastava la lingua, ma aveva imparato a ingoiarlo, dato che bere insieme l’akakafi era uno dei pochi rituali di rapporto sociale che gli abitanti di Dovza City si concedessero, e dunque molto importante per loro. «Un akakafi?» strillavano non appena uno arrivava in casa, in ufficio, a una riunione. Rifiutare era maleducazione, addirittura un affronto. Molte chiacchiere avevano come argomento l’akakafi: dove trovare quello migliore (non lo Stardrink, naturalmente), dov’era coltivato e trattato, come prepararlo. La gente si vantava del numero di tazze che ne beveva ogni giorno, come se una leggera dipendenza fosse, chissà perché, lodevole. Quei giovani ne bevevano litri.

Sutty li ascoltò attenta, sentì parlare di esami, premiazioni, vacanze. Nessuno parlava di corsi o di materie di studio, tranne due studenti vicini a lei che stavano discutendo su come insegnare ai bambini dell’asilo l’uso del gabinetto. Il ragazzo insisteva che il migliore incentivo era la vergogna. La ragazza replicò: «Meglio pulire e sorridere». Al che il ragazzo, seccato, attaccò con un predicozzo, tirando in ballo l’adattamento, gli obiettivi etici e il lassismo igienico.

Tornando a casa, Sutty si chiese se quella di Aka fosse una cultura basata sul senso di colpa, sulla vergogna, o su qualcosa di completamente diverso. Come mai tutti erano disposti a muoversi nella stessa direzione, a parlare la stessa lingua, a credere le stesse cose? Avevano paura di essere cattivi, o paura di essere diversi?

Ecco che saltava fuori di nuovo la paura, rifletté Sutty. Un problema suo, non loro.

Quando arrivò alla locanda, la padrona di casa era seduta sulla soglia. Si salutarono timidamente con espressioni illegali. Parlando del più e del meno, Sutty disse: «Mi piace molto il tè che servite. È molto meglio dell’akakafi».

Iziezi non abbassò una mano di scatto e non portò l’altra alla bocca, però le sue mani ebbero un fremito improvviso, e dalle labbra le uscì lo stesso «Ah» pronunciato dal Fecondatore. Poi, dopo una lunga pausa, cauta, abbreviando la parola inventata, la locandiera disse: «Ma l’akakafi proviene dal tuo paese».

«Certa gente sulla Terra beve qualcosa di simile. La mia gente, no.»

Iziezi sembrava tesa. Evidentemente, era un argomento delicato.

Se ogni argomento era un campo minato, non le restava che continuare a parlare ignorando le esplosioni, rifletté Sutty. Chiese: «Non piace nemmeno a te?».

Iziezi fece una smorfia. Dopo un silenzio nervoso, rispose decisa: «Fa male alla gente. Prosciuga la linfa e disturba il flusso. Alle persone che bevono akakafi tremano le mani e sussulta il cuore. Almeno, così dicevano. In passato. Molto tempo fa. Mia nonna. Adesso tutti lo bevono. Era una di quelle vecchie regole, sai. Non una cosa moderna. Alla gente moderna piace».

Cautela; confusione; convinzione.

«All’inizio non mi piaceva il tè che bevete a colazione, però adesso mi piace. Cos’è? Cosa fa?»

La faccia di Iziezi si rasserenò. «Quello è bezit. Avvia il flusso e riunisce. Rinvigorisce anche il fegato, un poco.»

«Sei una… esperta di erbe» disse Sutty, non conoscendo la parola che indicava "erborista".

«Ah!»

Una piccola mina era esplosa. Un piccolo avvertimento.

«Gli esperti di erbe sono rispettati e stimati nel mio paese natio» disse Sutty. «Molti di loro sono dottori.»

Iziezi non disse nulla, ma a poco a poco il suo volto tornò a rasserenarsi.

Mentre Sutty si girava per entrare in casa, la disabile disse: «Tra qualche minuto, vado al corso di esercizio fisico».

"Esercizio fisico?" pensò Sutty, lanciando un’occhiata agli stecchi inerti che pendevano dalle ginocchia di Iziezi.

«Se non hai trovato un posto dove esercitarti e desideri venire…»

L’Azienda era molto forte in ginnastica. A Dovza City, tutti appartenevano a un gruppo ginnico e frequentavano corsi che curavano la forma fisica. Parecchie volte al giorno, dagli altoparlanti risuonavano musica vivace e grida di "Uno! Due!", e intere fabbriche e palazzi di uffici riversavano nelle strade e nei cortili i produttori-consumatori perché saltassero e si piegassero e ruotassero di lena all’unisono. In quanto straniera, Sutty era riuscita quasi sempre a evitare quegli esercizi, ma guardando la faccia consunta di Iziezi disse: «Vengo volentieri».

Entrò in casa, e cercò un posto d’onore in bagno per lo splendido vasetto donatole dal Fecondatore. Poi si cambiò, si tolse i gambali aderenti e indossò dei pantaloni larghi. Quando uscì dalla stanza, vide che Iziezi, usando delle stampelle, si stava sistemando su una piccola carrozzella a motore fabbricata dall’Azienda, modello Starflight. Sutty disse che le sembrava un mezzo ben costruito. Di tutt’altro avviso, Iziezi ribatté: «Va bene solo in piano» e partì, sobbalzando e sussultando sulla strada ripida e dissestata. Sutty camminò accanto a lei, dando una mano quando la carrozzella si bloccava, cosa che accadeva circa ogni due metri. Arrivarono a un edificio basso, con le solite finestre sotto i cornicioni, e un portone a due battenti. Un battente un tempo era rosso, e l’altro blu, con un motivo a nuvola dipinto sopra che adesso traspariva spettrale, a chiazze rosa e grigie attraverso le mani di bianco. Iziezi puntò dritta sulla porta e la spalancò. Sutty la seguì.

Sembrava che ci fosse buio pesto, dentro. Sutty si stava abituando a quei passaggi dall’oscurità interna al bagliore abbacinante esterno e viceversa, ma i suoi occhi no. Appena oltre la porta, Iziezi si fermò e attese che Sutty si togliesse le scarpe e le mettesse su una mensola all’estremità di una fila di scarpe, tutte di tela nera, modello StarMarch, naturalmente. Poi Iziezi girò la carrozzella, scese ad andatura sostenuta una lunga rampa, parcheggiò dietro una panca e, sollevandosi con le stampelle, vi si sedette sopra. Sembrava che la panca si trovasse al margine di una grande area coperta di stuoie, oltre la quale regnava un’oscurità vellutata.

Sutty riuscì a scorgere delle figure indistinte, sedute qui e là a gambe incrociate sulle stuoie. Sulla panca, vicino a Iziezi, sedeva un uomo con una gamba sola. Iziezi si sistemò, posò le stampelle e alzò lo sguardo verso Sutty, che indicò il pavimento con un cenno della mano. Era entrato qualcuno e la porta si era aperta per un attimo, e in quell’istante di visibilità grigia Sutty vide che Iziezi sorrideva. Una cosa bellissima e commovente.