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Le maschere speculari dei Padri riflettevano l’immensa folla, centinaia di migliaia di persone radunate nella Grande Piazza, come una minuscola screziatura. Il sole brillava sulla chioma splendente e stupefacente di Dalzul. L’Angelo, lo chiamavano ormai, l’Araldo di Dio, il Messaggero Divino. La mamma borbottava e derideva quei termini, però lo osservava e ascoltava le sue parole con estrema attenzione e devozione, come gli Unisti, come chiunque, come tutti al mondo. Come faceva Dalzul a infondere la speranza nei fedeli e nei miscredenti nel medesimo tempo, con le stesse parole?

«Vorrei diffidare di lui» disse la mamma. «Ma non ci riesco. Dalzul lo farà… insedierà al potere i Padri Miglioristi. Incredibile! Ci libererà.»

Sutty non stentava a crederci. Sapeva, grazie agli insegnamenti di zio Hurree e della scuola, e per convinzione innata, che il Dominio dei Padri sotto cui aveva vissuto tutta la vita era stato un accesso di follia. L’Unismo era una reazione di panico alle grandi epidemie e alle grandi carestie, uno spasmo di colpa globale e di espiazione isterica, che si stava eccitando sempre più, stava per sfociare nell’orgia finale di violenza, quando l’"Angelo" Dalzul era giunto dal "Cielo", e con la sua magica eloquenza aveva trasformato la foga distruttiva in bontà e benevolenza, lo sterminio in mite abbraccio. Una questione di tempismo, uno spostamento dell’equilibrio. Dalzul possedeva la saggezza trasmessagli dagli insegnanti hainiani che avevano vissuto eventi simili mille volte nella loro storia infinita, ed era astuto come i suoi antenati bianchi terrestri che avevano convinto tutti gli altri sulla Terra che la loro via era l’unica via. Gli era bastato posare il dito sulla bilancia per mutare un odio fanatico e cieco in amore cieco universale. E adesso sarebbero tornate la pace e la ragione, e la Terra avrebbe ripreso il proprio posto tra i mondi pacifici e ragionevoli dell’Ekumene. Sutty aveva ventitré anni e non aveva difficoltà a credere a tutto ciò.

Il Giorno della Libertà, il giorno in cui aprirono la Riserva: le restrizioni alla libertà dei non credenti abolite, tutte le restrizioni riguardanti le comunicazioni, i libri, l’abbigliamento femminile, i viaggi, il culto, tutto quanto. La gente della Riserva usci in massa dai negozi, dalle case, dalle scuole e si riversò nelle strade piovose di Vancouver.

Non sapeva che fare, in realtà, dopo aver vissuto così a lungo in silenzio, schiva, cauta, umile, mentre i Padri predicavano e governavano e inveivano e i Tutori della Fede confiscavano, censuravano, minacciavano, punivano. Erano sempre stati i fedeli a radunarsi in folle immense, a glorificare a gran voce, a cantare, a festeggiare, a marciare qui e là, mentre i miscredenti si tenevano nascosti e parlavano sottovoce. Ma la pioggia cessò a poco a poco, e la gente portò nelle strade e nelle piazze chitarre e sitar e sassofoni, e cominciò a suonare e a ballare. Uscì il sole, basso e dorato sotto grossi nuvoloni, e la gente continuò a ballare i balli allegri dell’incredulità. In McKenzie Square c’era una ragazza che conduceva una danza in tondo, pelle d’avorio, folti capelli neri lucenti, cino-canadese, rideva, una ragazza chiassosa, allegra, troppo rumorosa, sfacciata, sicura di sé, ma Sutty si unì al suo girotondo perché le persone che ballavano si stavano divertendo moltissimo e il ragazzo che suonava la fisarmonica era bravissimo. Sutty e la ragazza dai capelli neri si ritrovarono faccia a faccia in una figura di danza che avevano appena inventato. Si presero per mano. Una rise, anche l’altra rise. Si tennero per mano tutta la notte.

Da quel ricordo, Sutty sprofondò dolcemente nel sonno, il sonno tranquillo che faceva quasi sempre in quella stanza ampia e silenziosa.

Il giorno dopo fece una lunga camminata in riva al fiume, tornò tardi, stanca. Mangiò con Iziezi, lesse un po’, srotolò il materassino.

Non appena spense la luce e si coricò, tornò a Vancouver, il giorno dopo la libertà.

Erano andate a fare una passeggiata sopra la città, in New Stanley Park, loro due. C’erano ancora dei grandi alberi lassù, alberi enormi di prima dell’inquinamento. Abeti, aveva spiegato Pao. Abeti Douglas e abeti rossi, si chiamavano. Una volta le montagne erano coperte di alberi. «Coperte di alberi! Nere di alberi!» disse Pao, con la sua voce rauca, non modulata, e Sutty vide le grandi foreste nere, i folti capelli neri lucenti.

«Sei cresciuta qui?» chiese, perché non sapevano ancora nulla l’una dell’altra, e Pao rispose: «Sì, e adesso voglio andarmene via!».

«Dove?»

«Hain, Ve, Chiffewar, Werel, Yeowe-Werel, Gethen, Urras-Anarres, O!»

«O, O, O!» strillò Sutty, ridendo e piangendo quasi nel sentire la propria litania, il proprio mantra segreto gridato a squarciagola. «Anch’io! E le farò, lo farò, me ne andrò!»

«Stai studiando?»

«Sono al terzo anno d’addestramento.»

«Io ho appena iniziato.»

«Mettiti in pari!» esclamò Sutty.

E Pao per poco non recuperò. Fece tre anni di studio in due. Sutty si laureò dopo il primo di quegli anni e rimase il secondo come assistente, insegnando grammatica e hainiano alle matricole. Quando fosse andata alla Scuola Ekumenica a Valparaíso, lei e Pao sarebbero rimaste separate solo otto mesi; e Sutty sarebbe tornata a Vancouver per le vacanze di dicembre, quindi la loro separazione sarebbe durata in realtà appena quattro mesi, e poi altri quattro, e poi di nuovo insieme, avrebbero terminato insieme la Scuola Ekumenica, e sarebbero rimaste insieme per il resto della vita, su tutti i Mondi Conosciuti. «Faremo l’amore su un mondo di cui adesso nessuno conosce neppure il nome, a mille anni di distanza da oggi!» aveva detto Pao, ridendo con quella sua deliziosa risata chioccia che sgorgava dalla pancia e poi la scuoteva tutta, facendola dondolare avanti e indietro. Le piaceva ridere, le piaceva raccontare e ascoltare barzellette. A volte rideva nel sonno. Sutty sentiva la risata sommessa nel buio, e la mattina Pao le spiegava di avere sognato qualcosa di davvero buffo, e rideva ancora cercando di raccontarle quei sogni divertenti.

Vivevano nell’appartamento che avevano trovato e dove si erano trasferite due settimane dopo la libertà, il caro e sudicio seminterrato di Souché Street, Sushi Street, perché c’erano tre ristoranti giapponesi in quella strada. Avevano due stanze: una con il pavimento interamente coperto di futon, l’altra con il fornello, il lavandino, e il pianoforte verticale con quattro tasti rotti e muti che costituiva un arredo fisso dell’appartamento perché era troppo malridotto per una riparazione, e farlo portare via sarebbe costato troppo. Pao suonava dei bellissimi valzer con qualche nota mancante, mentre Sutty cucinava bhaigan tamatar. Sutty recitava le poesie di Esnanaridaratha di Darranda e rubacchiava mandorle mentre Pao friggeva il riso. Un topo mise al mondo dei topolini nella dispensa. Seguirono lunghe discussioni per decidere che fare dei cuccioli. Ci fu uno scambio di accuse etniche ingiuriose: la crudeltà dei cinesi, che trattavano gli animali come cose inanimate, la malvagità degli indiani, che davano da mangiare alle vacche sacre e lasciavano morire di fame i bambini. «Non voglio vivere con i topi!» urlò Pao. «E io non voglio vivere con un’assassina!» replicò Sutty. I topolini crebbero e cominciarono a fare razzie. Sutty comprò una trappola a gabbia di seconda mano. Come esca usarono del tofu. Presero i topi uno alla volta, e li liberarono in New Stanley Park. La madre fu l’ultima a essere catturata, e quando la liberarono cantarono:

Dio ti benedirà, madre amorevoleDel figlio del tuo fedel marito,Stringiti a lui e non conoscer altri,Vivi tu pura e incontaminata.

Pao conosceva parecchi inni unisti, e ne aveva uno per quasi tutte le occasioni.

Sutty prese l’influenza. L’influenza era una cosa spaventosa, molti tipi di virus erano mortali. Ricordava benissimo il terrore provato, in piedi nel tram affollato mentre il mal di testa la tormentava sempre più, e poi quando era arrivata a casa e i suoi occhi non riuscivano a mettere a fuoco il viso di Pao. Pao la curò notte e giorno e quando la febbre calò le fece bere dei tè medicinali cinesi che sapevano di piscio e di muffa. Sutty rimase debole per giorni e giorni, stesa sui futon a fissare il soffitto sporco e scolorito, debole e intontita, tranquilla, rimettendosi in salute.