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Ma in quell’epidemia, la piccola Zietta trovò la strada del ritorno che portava al villaggio. La prima volta che Sutty si sentì abbastanza in forze per fare una visita a casa, fu un’esperienza strana trovarsi là con mamma e papà senza Zietta. Sutty continuava a girare la testa, pensando che Zietta fosse in piedi nel vano della porta o seduta nell’altra stanza, avvolta nella sua coperta-bozzolo sbrindellata. La mamma le diede i braccialetti di Zietta, i sei cerchietti di ottone di tutti i giorni, i due d’oro per mettersi in ghingheri, cerchietti minuscoli, fragili, in cui Sutty non sarebbe mai riuscita a infilare le mani. Li donò a Lakshmi, perché la bambina di Lakshmi li indossasse quando fosse cresciuta. «Non essere attaccata alle cose, sono un peso inutile, che intralcia. Quello che vale la pena di tenere, conservalo nella tua testa» aveva detto zio Hurree, predicando quello che aveva dovuto mettere in pratica. Sutty tenne però il sari di cotone rosso e arancione sottile sottile, che una volta piegato scompariva quasi e non poteva certo intralciarla. Era in fondo alla sua valigia, lì a Okzat-Ozkat. Un giorno forse l’avrebbe mostrato a Iziezi. Le avrebbe parlato di Zietta. Le avrebbe fatto vedere come si indossava un sari. Alla maggior parte delle donne interessava saperlo, alla maggior parte delle donne piaceva provarsi il sari. Una volta, Pao aveva provato il vecchio sari grigio e argento di Sutty, per divertirla durante la convalescenza, ma aveva detto che le ricordava troppo le gonne, che naturalmente aveva dovuto indossare in pubblico tutta la vita per via delle leggi uniste sull’abbigliamento, e inoltre non riusciva a capire come si facesse a fissarlo bene nella parte superiore. «Così mi usciranno le tette!» aveva strillato. E poi, facendole saltar fuori apposta, aveva eseguito una versione davvero notevole di quella che chiamava "danza classica indiana sui futon".

Sutty si era spaventata di nuovo, si era spaventata moltissimo, quando aveva scoperto che tutto quello che aveva appreso nei mesi prima di ammalarsi — la storia ekumenica, le poesie imparate a memoria, perfino semplici parole hainiane che conosceva da anni — sembrava essere stato cancellato. «Cosa farò, cosa farò, se non riesco a conservare le cose nemmeno nella testa?» aveva sussurrato a Pao, quando infine era crollata e aveva confessato il terrore che la tormentava da una settimana. Pao non l’aveva consolata molto, l’aveva solo lasciata sfogare e alla fine le aveva detto: «Penso che passerà. Penso che un po’ alla volta ti ritornerà in mente tutto». E naturalmente Pao aveva ragione. Parlare del problema si rivelò salutare. Il giorno dopo, mentre Sutty era in tram, i versi iniziali delle Terrazze di Darranda all’improvviso le sbocciarono nella mente come grandi fuochi d’artificio, quelle meravigliose parole ordinate, impetuose, ardenti; e lei capì che tutte le altre parole erano là al loro posto, non erano andate perse, aspettavano nell’oscurità, pronte a venire quando le avesse chiamate. Comprò un enorme mazzo di margherite e lo portò a casa per Pao. Le misero nell’unico vaso che avevano, di plastica nera, e la composizione floreale assomigliava a Pao, il nero e il bianco e l’oro. Con la visione di quei fiori, una consapevolezza intensa e completa del corpo di Pao la pervase adesso, lì nell’ampia stanza silenziosa su un altro mondo, come la pervadeva sempre là, allora, quando era con Pao, e quando non era con lei, ma in fondo erano sempre insieme, una vera separazione non c’era mai stata, nemmeno il lungo volo a sud lungo l’intera costa delle Americhe era stato una separazione. Nulla le aveva separate. "Non lasciar ch’io ammetta impedimento al connubio delle menti sincere…" «Oh, mia mente sincera» mormorò Sutty al buio, e sentì il caldo abbraccio che la stringeva prima di addormentarsi.

Arrivò la breve risposta di Tong Ov: uno stampato, ricevuto da un ufficio della Prefettura Distrettuale e consegnatole a mano, dopo una verifica del suo braccialetto con il codice d’identità, da un fattorino in divisa. "Osservatore Sutty Dass: Considera la tua vacanza l’inizio di un viaggio di istruzione. Continua la ricerca e la registrazione delle osservazioni personali come ritieni opportuno."

Il Controllore era sistemato! Sorpresa ed esultante, Sutty uscì a guardare la vetta impennacchiata del Silong e a riflettere su dove iniziare.

Nella mente, aveva raccolto innumerevoli cose da approfondire: gli esercizi di meditazione; le porte con la decorazione della nuvola, che aveva trovato in tutta la città, sempre imbiancate o dipinte con altri colori; le iscrizioni nei negozi; le metafore dell’albero che continuava a sentire quando si parlava di cibo o di salute o di qualsiasi argomento relativo al corpo; l’esistenza possibile di libri proibiti; l’esistenza certa di una rete d’informazione, più discreta di quella elettronica e non controllata dall’Azienda, una rete che permetteva alla gente di tutta la cittadina di tenersi sempre in contatto e di essere sempre informata, per esempio circa Sutty: chi era, dov’era, cosa voleva. Sutty vedeva quella consapevolezza negli occhi delle persone che incrociava per strada, dei negozianti, degli scolari, delle vecchie che zappavano nei piccoli orti, dei vecchi seduti al sole sui barili agli angoli delle strade. Non l’avvertiva come un’intromissione, era come se camminasse tra linee sottilissime che la guidavano; non erano vincoli, limitazioni, bensì rassicurazioni. Che al suo arrivo non avesse varcato la soglia di Iziezi o del Fecondatore per puro caso, adesso le sembrava probabile, sebbene non sapesse spiegare la cosa, e gradito, sebbene non sapesse perché.

Ora che era libera, decise di tornare nella bottega del Fecondatore. Raggiunse la parte alta della cittadina, cominciò a salire la ripida stradina. A metà percorso, s’imbatté nel Controllore.

Non dovendo più preoccuparsi di obbedirgli o di evitarlo, lo guardò come l’aveva guardato la prima volta durante il viaggio sul fiume, non come l’oggetto del controllo burocratico guarda il burocrate, ma umanamente. Il Controllore aveva schiena dritta e bei lineamenti, anche se l’ambizione, l’ansia, l’autorità, avevano reso la sua faccia dura e tesa. Nessuno nasceva così, rifletté Sutty. Non esistevano bambini arcigni. Magnanima, lo salutò: «Buongiorno, Controllore!».

Il tono allegro e sciocco della propria voce le risuonò negli orecchi. Sbagliato, sbagliato. Per lui, un saluto simile era una provocazione bell’e buona. Il Controllore rimase in silenzio, fronteggiandola.

Quindi si schiarì la voce e disse: «Mi è stato ordinato di annullare la richiesta che ti avevo fatto di informare il mio ufficio dei tuoi contatti e dei tuoi spostamenti. Dato che tu non avevi aderito, ho cercato di sorvegliarti a scopo protettivo. Mi hanno comunicato che ti sei lamentata di questo. Ti chiedo scusa per qualsiasi disturbo o disagio causato da me o dal mio personale».

Il suo tono era gelido e cupo, ma aveva una certa dignità, e Sutty, vergognandosi, disse: «No… mi dispiace, io…».

«Ti avverto» proseguì il Controllore, ignorandola, con un tono di voce più intenso, «qui ci sono persone che intendono servirsi di te per i loro scopi. Non sono resti pittoreschi di un’epoca passata. Non sono innocue. Sono malvage. Sono la feccia di un veleno mortale… la droga che ha stordito il mio popolo per diecimila anni. Cercano di trascinarci di nuovo in quella paralisi, in quella barbarie assurda. Anche se forse sono gentili con te, ti avverto, sono crudeli. Per loro sei una preda. Ti lusingheranno, ti insegneranno cose false, ti prometteranno miracoli. Sono i nemici della verità, della scienza. La loro cosiddetta conoscenza è farneticamento, superstizione, poesia. Le loro pratiche sono illegali, i loro libri e i loro riti sono proibiti, e tu lo sai. Non mettere la mia gente nella posizione spiacevole di scoprire una scienziata dell’Ekumene in possesso di materiale illegale, che partecipa a riti turpi e vietati. Ecco cosa ti chiedo… come scienziata dell’Ekumene…» Aveva cominciato a balbettare, alla ricerca delle parole giuste.