Era andata su Aka per imparare a cantare la canzone di quel mondo, a ballare la sua danza; e finalmente, secondo lei, lontano dal rumore incessante della città, stava cominciando a sentire la musica e a imparare a muoversi al ritmo di quella musica.
Un giorno dopo l’altro, registrò i propri appunti, osservazioni confuse che si contraddicevano, approfondivano, rivedevano, ipotizzavano, un’abbondanza caotica di informazioni su ogni sorta di argomento, una mappa disordinata e frammentaria che malgrado la sua complessità rappresentava solo uno schizzo approssimativo di un angolo dell’immensità che lei doveva esplorare: un modo di pensare e di vivere sviluppato ed elaborato nel corso di migliaia di anni dalla grande maggioranza degli esseri umani di quel mondo, un enorme sistema interdipendente di simboli, metafore, corrispondenze, teorie, cosmologia, cucina, callistenia, fisica, metafisica, metallurgia, medicina, fisiologia, psicologia, alchimia, chimica, calligrafia, numerologia, erboristeria, alimentazione, leggende, parabole, poesia, storia e racconti.
In quell’immensa foresta vergine mentale, Sutty cercò sentieri e segni, istituzioni che potessero essere descritte, idee che potessero essere definite. Evitò d’istinto i grandi concetti nebulosi e cercò elementi tangibili, come l’architettura. Gli edifici di Okzat-Ozkat con la doppia porta che rappresentava l’Albero una volta erano templi, "umyazu", una parola adesso bandita, cancellata. Le parole cancellate erano utili segnalazioni di sentieri che avrebbero potuto indicare la strada da seguire in quell’area selvaggia. "Tempio" era la traduzione migliore? Cosa accadeva nell’umyazu?
Be’, le avevano risposto, la gente un tempo andava là e ascoltava.
Cosa?
Oh, be’, le storie, ecco.
Chi raccontava le storie?
Oh, i maz. Vivevano là. Alcuni di loro.
Sutty dedusse che gli umyazu dovevano essere stati delle specie di monasteri, di chiese, e molto simili a biblioteche: luoghi dove dei professionisti raccoglievano e conservavano i libri e la gente andava a imparare a leggerli, a sentirli leggere. Nelle aree più ricche, c’erano stati grandi e prosperi umyazu, dove la gente si recava in pellegrinaggio per vedere i tesori della biblioteca e "sentire la Narrazione". Quelli erano stati tutti distrutti, abbattuti o fatti saltare, tranne il più vecchio e famoso, la Montagna d’Oro, molto lontano, a oriente.
Da un quasivero ufficiale che aveva seguito con partecipazione totale quando era a Dovza City, Sutty sapeva che la Montagna d’Oro era stata trasformata in un Sito Aziendale per il culto del Dio della Ragione: un culto artificiale che esisteva solo in quel centro turistico e in certi slogan e vaghe dichiarazioni dell’Azienda. Prima, comunque, la Montagna d’Oro era stata sventrata. Il quasivero mostrava scene di libri che venivano tolti da un grande archivio sotterraneo per mezzo di macchine, enormi pale che li ammassavano su camion ribaltabili come fossero immondizia, scavatrici che li spingevano a mucchi in una discarica. Chi seguiva il quasivero con la realtà virtuale prendeva parte alle operazioni di una di quelle macchine, mentre una musica vivace e allegra suonava come sottofondo. Sutty aveva fermato il quasivero a metà della scena, e aveva scollegato le connessioni corporee della realtà virtuale dall’apparecchio. In seguito, aveva guardato e ascoltato i quasiveri dell’Azienda senza più parteciparvi direttamente, anche se ricollegava i moduli errevi ogni giorno, quando lasciava la sua cabina di ricerca al Ministero Centrale della Poesia e dell’Arte.
Tali ricordi la inducevano a provare una certa solidarietà nei confronti di quella religione, ammesso che ciò che stava studiando fosse una religione, ma la cautela e la diffidenza bilanciavano il suo punto di vista. Lei doveva evitare i giudizi e le teorie, attenersi all’evidenza e all’osservazione, ascoltare e registrare quanto le dicevano.
Malgrado fossero tutte cose bandite, illecite, la gente ne parlava liberamente, rispondeva fiduciosa alle sue domande. Sutty non ebbe difficoltà a scoprire gli schemi e i cicli annuali e perenni di feste, digiuni, indulgenze, astinenze, celebrazioni. Quei riti, che in generale sembravano simili alle pratiche della maggior parte delle religioni che conosceva, adesso erano naturalmente segreti, nascosti, oppure inseriti in modo così complesso e discreto nel tessuto della vita comune che i Controllori del Dipartimento Socioculturale non erano in grado di indicare una particolare azione e dire: "Questo è proibito".
A Okzat-Ozkat, i menu dei piccoli ristoranti per i lavoratori erano un bell’esempio della sopravvivenza oscura ma fiorente di consuetudini illecite. Il menu era scritto in alfabeto moderno su un tabellone accanto alla porta. Oltre all’akakafi, comprendeva i generi alimentari prodotti dall’Azienda e pubblicizzati, distribuiti e venduti in tutto il pianeta dal Ministero della Sanità e della Nutrizione: prodotti delle grandi agrifabbriche, ad alto tenore proteico, integrati con vitamine, confezionati, che andavano solo riscaldati. I ristoranti avevano disponibili alcune di quelle vivande, liofilizzate, in scatola, o surgelate, e certe persone le ordinavano. La maggior parte di coloro che andavano in quei piccoli ristoranti, però, non ordinava nulla. Si sedevano, salutavano il cameriere, e aspettavano che fossero serviti i cibi freschi e le bevande adatti a quel giorno, all’ora del giorno, alla stagione e al tempo, secondo una teoria e una pratica alimentare antichissime, il cui scopo era di far vivere a lungo e bene con una buona digestione. O con un cuore sereno. Le due espressioni si equivalevano in rangma, la lingua locale.
In una delle lunghe sedute serali di registrazione, nel pieno dell’autunno, accovacciata sul tappeto rosso nella stanza silenziosa, Sutty definì nel proprio noter il sistema akano come una religione-filosofia analoga al buddismo o al taoismo, che aveva studiato sulla Terra: quella che gli hainiani, con la loro predilezione per liste e categorie, chiamavano "una religione di processo". «Non esistono parole akane per indicare dio, dei, il divino» disse Sutty al noter. «I burocrati dell’Azienda hanno inventato una parola che significa dio e hanno instaurato un teismo di stato quando hanno scoperto che un concetto di divinità era importante nei mondi presi come modelli. Hanno capito che la religione è uno strumento utile per chi è al potere. Ma qui non esisteva nessun teismo o deismo indigeno. Su Aka, "dio" è una parola senza referente. Niente lettere maiuscole. Nessun creatore, solo il creato. Nessun padre eterno che premi e punisca, che giustifichi l’ingiustizia, stabilisca la crudeltà, offra la salvezza. L’eternità non è un punto estremo, bensì una continuità. La divisione primaria dell’essere in materiale e spirituale solo come "due in uno", o uno in due aspetti. Nessuna gerarchia di Natura e Soprannaturale. Nessun elemento binario tipo Tenebre/Luce, Male/Bene, Corpo/Anima. Nessuna vita ultraterrena, nessuna rinascita, nessuna anima immortale disincarnata o reincarnata. Nessun paradiso, nessun inferno. Il sistema akano è una disciplina spirituale con fini spirituali, i quali però sono gli stessi che persegue mirando al benessere fisico ed etico. L’azione giusta è fine a se stessa. Dharma senza karma.»
Era arrivata a una definizione della religione akana. Per un minuto, si sentì completamente soddisfatta della definizione e di sé.
Poi si accorse che stava pensando a una serie di miti che Ottiar Uming aveva raccontato. La figura centrale, Ezid, uno strano personaggio romantico che a volte appariva come un giovane bello e gentile, a volte come una giovane bella e impavida, era chiamato "l’Immortale". Sutty aggiunse un appunto: «E "Ezid l’Immortale", allora? Questo significa che credono in una vita ultraterrena? Ezid è una persona, due persone, o molte? "Immortale / che vive per sempre" sembra significare: intenso, ripetuto molte volte, famoso… forse ha anche un significato particolare e indica: in perfetta salute fisico-spirituale, che vive saggiamente. Verificare questo punto».