Più volte nei suoi appunti, dopo ogni conclusione, c’era queclass="underline" "Verificare questo punto". Le conclusioni portavano a nuovi inizi. I termini cambiavano, venivano corretti, corretti di nuovo. Poco tempo dopo, Sutty non era per nulla contenta della propria definizione del sistema come religione; non sembrava una definizione errata, ma non era del tutto adeguata. Il termine "filosofia" era ancor meno appropriato. Riprese a chiamarlo "il sistema", "il Grande Sistema". Poi lo chiamò "la Foresta", perché scoprì che nell’antichità era chiamato "la via attraverso la foresta". Lo chiamò "la Montagna" quando scoprì che alcuni dei suoi insegnanti definivano quello che le insegnavano "la via verso la montagna". Alla fine, lo chiamò "la Narrazione". Questo, però, dopo avere conosciuto maz Elyed.
Fece lunghe discussioni con il proprio noter per stabilire se nel dovzano, o nel lessico antico e in parte non dovzano usato dalla gente istruita, ci fosse qualche parola che potesse significare "sacro" o "santo". C’erano parole che lei traduceva come "potere", "mistero", "non controllato dalla gente", "parte dell’armonia". Quei termini non erano mai riservati a un luogo o a un tipo d’azione particolari. Sembrava, anzi, che nel vecchio modo di pensare akano qualsiasi luogo, qualsiasi atto, se percepito in modo corretto, fosse in effetti misterioso e potente, potenzialmente sacro. E la percezione sembrava comportare la descrizione: parlare del luogo, o dell’atto, o dell’evento, o della persona. Parlarne, farne una storia.
Quelle storie, tuttavia, non erano vangelo. Non erano la Verità. Erano tentativi di verità. Barlumi, scorci di sacralità. Non si era tenuti a credere, solo ad ascoltare.
«Be’, è così che ho imparato la storia» diceva la gente, dopo avere raccontato una parabola o un episodio storico o un’antica leggenda familiare. «Be’, ecco cosa dice questa storia.»
I personaggi santi delle storie raggiungevano la santità, ammesso che lo fosse, in mille modi diversi, nessuno dei quali pareva particolarmente santo a Sutty. Non c’erano regole, come povertà o castità o obbedienza, oppure il baratto dei propri beni terreni con una ciotola da mendicante, o l’isolamento in cima a una montagna. Alcuni eroi e maz famosi protagonisti delle storie erano ricchi sfondati; a quanto sembrava, la loro virtù era stata la generosità: costruire umyazu splendidi e imponenti in cui collocare i loro tesori, o andare in processione con centinaia di compagni, tutti in sella a eberdin con finimenti d’argento. Alcuni eroi erano guerrieri, alcuni capi potenti, altri calzolai, altri ancora bottegai. Certi personaggi santi delle storie erano amanti appassionati, e la storia riguardava la loro passione. Molti erano coppie. Non c’erano regole. C’era sempre un’alternativa. I narratori, quando commentavano le leggende e le storie raccontate, potevano far notare che quello era stato "un" buon modo o "un" modo giusto di fare qualcosa, ma non dicevano mai che era "il" modo giusto. E "buono" era sempre un aggettivo: buon cibo, buona salute, buon sesso, buon clima. Niente lettere maiuscole. Mai buono nel senso di bontà, di bene. Il Bene o il Male come entità, forze contrastanti, mai.
Quel sistema non era affatto una religione, disse Sutty al noter, con entusiasmo crescente. Certo, aveva una dimensione spirituale. Infatti, era la dimensione spirituale della vita per coloro che lo seguivano. Ma la religione come istituzione che imponesse un credo e affermasse una propria autorità, la religione come comunità formata da una conoscenza di divinità estranee o istituzioni in competizione, non era mai esistita su Aka.
Fino all’epoca attuale, forse.
Le terre abitabili di Aka erano un unico enorme continente con un lunghissimo arcipelago al largo della costa orientale. Dovza era l’estrema regione sudoccidentale del grande continente. Non essendo divisi da oceani, gli akani fisicamente appartenevano a un unico tipo, con lievi variazioni locali. Tutti gli Osservatori avevano rilevato tale caratteristica, tutti avevano fatto notare l’omogeneità etnica, la mancanza di diversità sociale e culturale, ma nessuno di loro si era reso conto appieno che tra gli akani non c’erano stranieri. Non c’era mai stato nessuno straniero, finché non erano arrivate le navi dell’Ekumene.
Era un fatto semplice, ma difficilissimo da comprendere per la mente terrestre. Niente stranieri. Niente "altri", nel senso letale di alterità esistente sulla Terra, l’implacabile divisione fra tribù, i confini arbitrari e invalicabili, gli odi etnici nutriti per secoli e millenni. Lì, "gente" non significava "la mia gente", ma "la gente"… tutti, l’umanità. "Selvaggio" non indicava un forestiero incomprensibile, ma una persona incolta. Su Aka, tutta la competizione era famigliare. Tutte le guerre erano guerre civili.
Uno dei grandi poemi epici che stava registrando un po’ alla volta riguardava una lunga e sanguinosa contesa per una valle fertile, iniziata come litigio tra un fratello e una sorella per un’eredità. Le lotte tra regioni e città-stato per il dominio economico si erano susseguite in tutta la storia akana, sfociando spesso in conflitto armato. Ma in quelle guerre e in quegli scontri combattevano soldati di professione, su campi di battaglia. Era molto raro, e condannato nelle storie e negli annali come sbagliato, vergognoso e punibile, che i soldati distruggessero città o campagne, o che facessero del male ai civili. Gli akani si scontravano per avidità e sete di potere, non per odio o in nome di un credo. Combattevano secondo regole precise. Avevano le stesse regole. Erano un unico popolo. Il loro modo di pensare e di vivere era universale. Avevano cantato tutti una sola canzone, anche se a molte voci.
Gran parte di quello spirito unitario comune, a giudizio di Sutty, era dipeso dalla scrittura. Prima della rivoluzione culturale dovzana esistevano parecchie lingue principali e innumerevoli dialetti, ma usavano tutti gli stessi ideogrammi, che ognuno era in grado di comprendere. Per quanto sotto certi aspetti fossero scomode e arcaiche, le scritture non alfabetiche potevano unire e conservare — come avevano fatto sulla Terra gli ideogrammi cinesi — un gran numero di lingue e dialetti diversi; e grazie alle scritture non alfabetiche, testi scritti migliaia di anni addietro erano leggibili senza traduzione, anche se i suoni delle parole erano cambiati fino a diventare irriconoscibili. Sì, per i riformatori dovzani, forse quello era stato proprio il motivo principale che li aveva convinti a sbarazzarsi della vecchia scrittura: oltre a intralciare il progresso, era pure una forza conservatrice attiva. Manteneva in vita il passato.
A Dovza City, Sutty non aveva conosciuto nessuno in grado di leggere la vecchia scrittura, o che ammettesse di saperlo fare. Le sue poche domande iniziali a quel riguardo avevano suscitato una tale disapprovazione, dinieghi così recisi, che aveva imparato subito a tacere, a non dire a nessuno che lei sapeva leggere i vecchi caratteri. E i funzionari con cui aveva a che fare non le avevano mai chiesto nulla. La vecchia scrittura non veniva più usata da decenni; probabilmente non si erano mai resi conto che, a causa dei fenomeni temporali relativi ai viaggi spaziali, era proprio quella la scrittura che Sutty aveva imparato.
Non era stata del tutto sciocca a chiedersi, là a Dovza City, se poteva essere davvero l’unica persona del pianeta capace di leggerla adesso, e non era stata del tutto sciocca a provare sgomento a quell’idea. Se portava l’intera storia di un popolo, non il suo popolo, nella testa, bastava dimenticare una parola, un carattere, un segno diacritico, e una parte di tutte quelle vite, di tutti quei secoli di pensiero e sentimento, sarebbe andata perduta per sempre…