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Era stato un enorme sollievo trovare, lì a Okzat-Ozkat, molte persone, vecchi e giovani, perfino bambini, che portavano e si ripartivano quel carico prezioso. I più sapevano leggere e scrivere alcune decine di caratteri, o alcune centinaia, e molti studiavano per completare l’apprendimento. Nelle scuole dell’Azienda, i bambini imparavano l’alfabeto di derivazione hainiana e venivano educati come produttori-consumatori; a casa o in lezioni illegali in stanzette dietro un negozio, un laboratorio, o un magazzino, imparavano gli ideogrammi. Si esercitavano scrivendo i caratteri su piccole lavagne che si potevano cancellare in un attimo. I loro insegnanti erano lavoratori, padroni di casa, negozianti, gente comune della cittadina.

Quegli insegnanti della vecchia lingua e delle vecchie usanze, i "colti", erano chiamati maz. Yoz era un termine che indicava rispettosa uguaglianza; maz, come appellativo, indicava maggiore rispetto. Come titolo o nome significava — capì a poco a poco Sutty — una funzione o una professione che non era definibile come prete, insegnante, dottore o studioso, ma conteneva aspetti di ognuna di esse.

Tutti i maz che Sutty conobbe — e col passare delle settimane conobbe la maggior parte dei maz di Okzat-Ozkat — vivevano in condizioni di povertà più o meno agiata. Di solito avevano un mestiere per arrotondare quello che percepivano come maz per insegnare, dispensare medicamenti e consigli sull’alimentazione e la salute, celebrare cerimonie quali matrimoni e funerali, e leggere e parlare nelle riunioni serali, le narrazioni. I maz erano poveri non perché le vecchie consuetudini stessero morendo o fossero care solo agli anziani, ma perché la gente che pagava i maz era povera. Quella era una cittadina marginale, che arrancava fra tante asperità, senza ricchezza. Gli abitanti, però, sostenevano i maz, pagavano i loro insegnamenti "a parola", per usare l’espressione locale. La sera, andavano a casa di un maz ad ascoltare le storie e le discussioni, e pagavano regolari parcelle in monete di rame o banconote di piccolo taglio. Non c’era nulla di vergognoso in quella transazione, né da parte di chi pagava né da parte di chi percepiva; non c’era l’ipocrisia di una "donazione": si pagavano in contanti le prestazioni di un professionista.

Molti bambini partecipavano a quelle riunioni serali, e ascoltavano, più o meno, le narrazioni, o si addormentavano tranquilli. I bambini assistevano gratis fino ai quindici anni, età in cui cominciavano a pagare le stesse parcelle degli adulti. Gli adolescenti prediligevano le sedute di certi maz specializzati nella recita o nella lettura di poemi epici e racconti avventurosi, come La guerra della valle e le storie di Ezid la Meraviglia. I corsi di esercizio fisico di tipo più vigoroso e marziale erano frequentatissimi da giovani di ambo i sessi.

I maz, comunque, erano per la maggior parte di mezza età o vecchi, non perché stessero estinguendosi come gruppo, ma perché, come dicevano, ci voleva una vita per imparare a camminare nella foresta.

Sutty voleva scoprire perché diventare colti fosse un lavoro interminabile, ma anche scoprirlo sembrava un’impresa interminabile. Cosa credeva quella gente? Cosa considerava sacro? Sutty continuò a cercare il nocciolo della questione, le parole al centro della Narrazione, i libri sacri da studiare e memorizzare. Li trovò. Ne trovò molti, non uno fondamentale. Nessuna bibbia. Nessun corano. Dozzine di upanishad, un milione di surra. Ogni maz le diede qualcosa di diverso da leggere. Aveva già letto o sentito innumerevoli testi: scritti, orali, scritti e orali; molti, se non la maggior parte, esistevano in più di una versione. Gli argomenti delle narrazioni sembravano infiniti, anche adesso che tanto materiale era stato distrutto.

All’inizio dell’inverno, Sutty pensò di avere trovato i testi principali del sistema in una raccolta di poesie e trattati chiamata Il pergolato. Tutti i maz ne parlavano con grande rispetto, ne citavano brani. Sutty lo studiò per settimane. A quanto era in grado di stabilire, era stato scritto in prevalenza dai millecinquecento ai mille anni addietro nella regione centrale del continente, durante un periodo di prosperità materiale e di fermento artistico e intellettuale. Era un vasto compendio di raffinati ragionamenti filosofici su essere e divenire, forma e caos, meditazioni mistiche sulla Creazione e il Creato, e splendide e complesse poesie metafisiche riguardanti l’Uno che è Due, i Due che sono Uno, il tutto collegato, illuminato, e complicato dai commentari e dalle annotazioni in margine dei secoli successivi. La nipote di zio Hurree, la studiosa pedante, si lanciò con entusiasmo in quella giungla di significati, disposta a smarrirsi per anni nell’intrico. Fu riportata alla realtà solo dalla propria coscienza, che le stette dietro portando il greve fardello del buonsenso, rimproverandola: "Ma questo non è la Narrazione, è solo una parte della Narrazione, solo una piccola parte…".

La coscienza, infine, fu aiutata in modo decisivo da maz Oryen Viya, il quale affermò che il testo del Pergolato che Sutty andava a studiare ogni giorno a casa sua da un mese era solo una parte, in molti punti completamente diversa, di un testo da lui visto molti anni prima in un grande umyazu di Amareza.

Non esisteva un testo esatto. Non esisteva una versione standard. Di nulla. Non c’era un unico Pergolato, ma molti, moltissimi pergolati. La giungla era sterminata, e non si trattava di una sola giungla, bensì di innumerevoli giungle, tutte brulicanti di tigri ardenti di significato, innumerevoli tigri…

Sutty finì di inserire la versione del Pergolato di Oryen Viya nel noter, ripose il cristallo, diede uno scappellotto al lato pedante della propria personalità, e ricominciò da capo.

Qualunque cosa fosse, quello che stava cercando di scoprire, di apprendere, non era una religione con un credo e un libro sacro. Non si occupava di fede. Tutti i suoi libri erano sacri. Non si poteva definire con simboli e idee, per quanto i suoi simboli e le sue idee fossero bellissimi, abbondanti, interessanti. E non si chiamava "Foresta", sebbene a volte la chiamassero così, né "Montagna", sebbene a volte la chiamassero così, ma perlopiù, a quanto le risultava, era chiamata "la Narrazione". Perché?

Be’ (disse il buonsenso, brusco), perché le persone colte qui narrano continuamente delle storie.

Sì, certo (replicò il suo intelletto con un certo disprezzo), narrano parabole, storie, è così che istruiscono. Ma che cosa fanno?

Sutty si mise a osservare i maz.

Sulla Terra, quando aveva studiato le lingue di Aka, aveva appreso che tutte le lingue principali avevano un particolare pronome singolare-duale, usato per una donna incinta o un animale gravido e per una coppia sposata. L’aveva incontrato di nuovo nel Pergolato e in molti altri testi, dove indicava il tronco singolo-doppio dell’albero dell’essere e pure i personaggi mitici-eroici delle storie e delle epopee, che di solito — come gli eroi produttori-consumatori della propaganda dell’Azienda — erano coppie. Quel pronome era stato bandito dall’Azienda. Usarlo nel linguaggio parlato o scritto era un reato punibile con una multa. Sutty non l’aveva mai sentito pronunciare a Dovza City. Lì, invece, lo sentiva pronunciare ogni giorno, anche se non in pubblico, in riferimento agli insegnanti-officianti, i maz. Perché?

Perché i maz erano coppie. Erano sempre coppie. Una unione sessuale, eterosessuale o omosessuale, monogama, che durava tutta la vita. Perfino oltre la morte, perché se rimanevano vedovi non si risposavano mai. Assumevano e conservavano ognuno il nome dell’altro. La moglie del Fecondatore, Ang Sotyu, era morta da quindici anni, ma lui era ancora Sotyu Ang. Erano due che erano uno, uno che era due.

Perché?

Sutty si eccitò. Era sulle tracce del principio centrale del sistema: i Due che sono Uno. Doveva concentrarsi e cercare di capire.