Sutty percorreva con passo pesante le strade ghiacciate indossando il vecchio cappotto e gli stivali nuovi. In inverno, a Okzat-Ozkat, tutti si assomigliavano, imbacuccati nei cappotti di pelle con cappuccio imbottito, tranne i burocrati in divisa, che a loro volta sembravano tutti uguali nei loro indumenti pesanti di fibra sintetica dai colori vistosi, blu, ruggine, viola. Il freddo inclemente creava una specie di cameratesco anonimato. Quando si entrava in qualche luogo chiuso, il tepore era una fonte immancabile di sollievo, piacere, senso di solidarietà. In una sera lugubre e pungente, arrancare lungo le strade ripide fino a raggiungere qualche stanzetta buia dall’aria viziata e radunarsi con gli altri accanto al focolare — una stufetta elettrica, perché c’era poca legna lì, vicino al limite della vegetazione arborea, e tutto il calore era generato dalla gelida energia del fiume Ereha — e togliersi le muffole e strofinarsi le mani, che sembravano così nude e delicate, e guardare le altre facce bruciate dal vento e le ciglia imperlate di ghiaccio, e sentire il piccolo tamburo che rullava tatat tatat, e la voce sommessa che cominciava a parlare, elencando i nomi dei fiumi di Hoying che confluivano l’uno nell’altro, o raccontando la storia di Ezid e Inamena sulla Montagna di Gam, o descrivendo come il Consiglio di Mez avesse radunato un esercito contro i selvaggi occidentali… tutto questo rappresentò per Sutty un’esperienza piacevolissima, sicura, concreta, continua, durante tutto l’inverno.
I selvaggi occidentali, adesso lo sapeva, erano i dovzani. Quasi tutto quello che i maz insegnavano, leggende e storia e filosofia, proveniva dal centro e dall’est del grande continente, e da secoli addietro, millenni addietro. Da Dovza proveniva solo la lingua che parlavano, ma lì era infarcita di parole della lingua originale di quella regione, il rangma, e di altri idiomi.
Parole. Un mondo fatto di parole.
C’era della musica. Alcuni maz intonavano canti curativi come quelli registrati da Tong Ov nella metropoli; altri suonavano strumenti a corda, con l’archetto o pizzicati, per accompagnare ballate e canzoni. Sutty registrava quella musica quando poteva, anche se la sua ottusità musicale le impediva di apprezzarla. Un tempo c’erano arte, sculture e dipinti e arazzi, coi simboli dell’Albero e della Montagna e figure ed episodi delle leggende e delle storie. C’era stata la danza, ed esistevano ancora le varie forme di esercizio fisico e di meditazione mobile. Ma innanzitutto c’erano le parole.
Quando i maz si appoggiavano sulle spalle il manto della loro carica — un piccolo pezzo di stoffa sottile, rosso o blu — venivano percepiti come portatori di un’autorità sacra, un potere sacro. Quello che dicevano allora faceva parte della Narrazione.
Quando si toglievano la sciarpa tornavano alla condizione normale, non vantavano alcuna autorità spirituale, quello che dicevano allora contava quanto le parole di chiunque. Certe persone, naturalmente, insistevano nell’attribuire ai maz un’autorità permanente. Come la gente della tribù di Sutty, molti akani desideravano seguire un capo, versare tributi invece di pagare prestazioni, scaricare la responsabilità sulle spalle di qualcun altro. Ma se i maz avevano una qualità in comune, era un’ostinata modestia. Non miravano a diventare figure carismatiche. Maz Imyen Katyan era uno degli uomini più gentili che Sutty avesse mai conosciuto, ma quando una donna si rivolse a lui con un titolo ossequioso, "munan", usato per i maz famosi dei racconti e della storia, lui la redarguì rabbioso: «Come osi chiamarmi così?» e poi, calmatosi, aggiunse: «Quando sarò morto da cent’anni, yoz».
Poiché ogni aspetto dell’attività professionale dei maz era una violazione della legge e comportava un rischio personale considerevole, Sutty aveva creduto che parte di quello stile modesto, quel restare in ombra, fosse un atteggiamento recente. Ma quando lo disse, maz Ottiar Uming scosse la testa.
«Oh, no» replicò la vecchia. «Dobbiamo nasconderci, tenere tutto segreto, sì. Ma penso che all’epoca dei miei nonni la maggior parte dei maz vivessero come viviamo adesso. Nessuno può portare la sciarpa in continuazione! Neppure maz Elyed Oni… Certo, negli umyazu era diverso.»
«Parlami degli umyazu, maz.»
«Erano luoghi costruiti per accumulare la forza. Luoghi pieni di essere. Pieni di gente che narrava e ascoltava. Pieni di libri.»
«Dov’erano?»
«Oh, dovunque. Qui a Okzat-Ozkat, ce n’era uno dove adesso c’è il Liceo, e un altro dove adesso lavorano la pietra pomice. Su fino al Silong, nelle valli, lungo le strade commerciali, c’erano umyazu per i pellegrini. E giù dove la terra è ricca, c’erano enormi umyazu, con centinaia di maz che vi abitavano, e si spostavano in visita da un umyazu all’altro per tutta la vita. Conservavano libri, e ne scrivevano, e continuavano a narrare. Capisci, potevano dedicare tutta la vita a questo. Potevano rimanere sempre là. La gente andava a visitarli, per sentire la narrazione e leggere i libri conservati nelle biblioteche. La gente andava in processione, con bandiere rosse e blu. Andava, e rimaneva tutto l’inverno, a volte. Risparmiava per anni per poter pagare i maz e l’alloggio. Mia nonna mi parlò del viaggio che fece all’Umyazu Rosso di Tenban. Aveva undici o dodici anni. Impiegarono quasi un anno intero per andare, fermarsi, e tornare. Era abbastanza ricca, la famiglia di mia nonna, così fecero tutto il viaggio su un carro trainato da eberdin. Sai, allora non avevano auto e aerei. Nessuno li aveva. La maggior parte della gente andava a piedi. Ma tutti avevano bandiere e portavano nastri. Color rosso e blu.» Ottiar Uming rise contenta al pensiero di quelle processioni. «La madre di mia madre scrisse la storia di quel viaggio. Un giorno, la tirerò fuori e la racconterò.»
Il suo compagno, Uming Ottiar, stava spiegando un grande foglio rigido sul tavolo, nel retro della loro drogheria. Ottiar Uming andò ad aiutarlo e mise una pietra nera lucida su ogni angolo che tendeva ad arricciarsi. Poi invitarono i loro cinque ascoltatori ad avvicinarsi, a salutare il foglio col gesto della montagna e del cuore, e a studiare la carta e le sue iscrizioni. La mostravano ogni tre settimane, e Sutty era sempre venuta, per tutto l’inverno. Era stato il suo primo contatto ufficiale con il sistema concettuale dell’Albero. Il bene più prezioso della coppia di maz, ricevuto in dono cinquant’anni prima dal loro maz-insegnante, era una splendida mappa o mandala dell’Uno che è Due da cui hanno origine il Tre, il Cinque, la Miriade, e dalla Miriade il Cinque, il Tre, il Due, l’Uno… Un Albero, un Corpo, una Montagna, tracciati nel cerchio che era tutto e nulla. Delicate figurine, animali, persone, piante, rocce, fiumi, vivide come fiamme guizzanti, costituivano le forme più grandi, che si dividevano, si ricongiungevano, si trasformavano nelle altre forme e nel tutto, l’unità fatta di varietà infinita, il mistero chiaro come il giorno.
A Sutty piaceva studiare la carta e cercare di decifrare le scritte e le poesie attorno alle immagini. Il dipinto era bellissimo, le poesie splendide e difficili da afferrare, la carta era un’opera d’arte, avvincente, illuminante. Maz Uming si sedette e dopo alcuni colpi sul piccolo tamburo cominciò a intonare uno dei canti interminabili che accompagnavano i rituali e molte narrazioni. Maz Ottiar lesse e discusse alcune delle iscrizioni, che risalivano a quattrocento o cinquecento anni prima. La sua voce era sommessa, piena di silenzi. Sottovoce, esitanti, gli studenti fecero delle domande. Lei rispose con lo stesso tono.