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Poi indietreggiò, si sedette e proseguì il canto con voce da moscerino, e il vecchio Uming, mezzo cieco, biascicando le parole per via di un colpo apoplettico, si alzò e parlò di una delle poesie.

«Questa è di maz Niniu Raying, cinque, sei, settecento anni fa, eh? È nel Pergolato. Qualcuno l’ha scritta qui, un bravo calligrafo, perché parla di come le foglie dell’Albero muoiano ma ritornino sempre, purché noi le vediamo e le raccontiamo. Vedete, qua dice: "Parola, l’oro oltre la cascata, restituisce lo splendore al ramo". E qua sotto, vedete, qualcuno in seguito ha scritto: "La vita della mente è memoria".» Sorrise ai presenti, un sorriso lieve, gentile. «Ricordatelo, eh? "La vita della mente è memoria". Non dimenticatelo!» Rise, risero tutti. Intanto, nella stanza accanto, la drogheria, il nipote dei maz teneva alto il volume dell’impianto audio: musica allegra, esortazioni, notizie strombazzate, che servivano a coprire la poesia illecita, il riso proibito.

Era un peccato, ma affatto sorprendente, disse Sutty al noter, che un’antica disciplina popolare cosmologica-filosofica-spirituale contenesse una gran quantità di superstizione e sfociasse in quelle che lei aveva etichettato SA, sciocchezze astruse. La grande giungla di significati importanti aveva pantani e acquitrini, e lei alla fine ne aveva incontrati alcuni. Conobbe dei maz che sostenevano di possedere conoscenze arcane e poteri divini. Per quanto trovasse noiose tali affermazioni, si rendeva conto di non sapere con certezza che cosa fosse prezioso e che cosa ciancia, e registrò scrupolosa tutte le informazioni che poteva comprare da quei maz riguardanti l’alchimia, la numerologia, l’interpretazione letterale di testi simbolici. Per frammenti di testi e brandelli di metodologia, quei maz pretesero da lei un prezzo piuttosto salato, mostrandosi restii, facendo seguire alla compravendita avvertimenti solenni per metterla in guardia contro i pericoli di conoscenze così potenti.

Sutty detestava soprattutto le interpretazioni letterali. Con quella stretta aderenza alla lettera, con un simile fondamentalismo, le religioni tradivano le migliori intenzioni dei loro fondatori. Riducendo il pensiero a formula, sostituendo la possibilità di scelta con l’obbedienza, quei predicatori trasformavano la parola viva in legge morta. Ma Sutty inserì ogni cosa nel noter, che aveva già dovuto scaricare due volte su microcristallo perché non poteva trasmettere nulla della mole di tesori e sciocchezze che stava accumulando.

A quella distanza, con tutti i mezzi di comunicazione controllati, non aveva modo di consultarsi con Tong Ov e chiedergli cosa doveva fare di tutto quel materiale. Non poteva nemmeno dirgli che l’aveva trovato. Il problema rimase, e crebbe.

Tra le varie SA, trovò un tipo di sciocchezza astrusa che, a quanto le risultava, esisteva solo su Aka: un sistema di significati arcani attribuiti ai vari tratti che formavano i caratteri ideogrammatici e agli altri tratti e punti che servivano a qualificare il tempo verbale, il modo, il caso sostantivale, l’Azione e l’Elemento (perché tutto, proprio tutto, poteva essere categorizzato nelle Quattro Azioni e nei Cinque Elementi). Ogni carattere della vecchia scrittura diventava quindi un codice che doveva essere interpretato da specialisti, che ricordavano moltissimo gli esperti di oroscopi del paese di Sutty. Scoprì che a Okzat-Ozkat molte persone, compresi i funzionari dell’Azienda, non intraprendevano nulla di importante senza prima chiamare un "lettore di segni" che scrivesse il loro nome e altre cose pertinenti e, esaminati i dati e consultati diagrammi e carte di estrema complessità, li consigliasse e pronosticasse. «Questo è il genere di cosa che mi fa sentire solidale con il Controllore» disse al noter. Poi aggiunse: «No. È quello che il Controllore vuole dal suo genere di SA. SA politiche. Tutto a posto, in perfetto ordine, sotto controllo. Ma anche lui ha ceduto i comandi».

Molte pratiche osservate lì ricordavano pratiche analoghe sulla Terra. Gli esercizi fisici, come lo yoga e il tai chi, interessavano il corpo e la mente, erano discipline coltivate per tutta la vita, e conducevano a una concentrazione estrema, o a uno stato di trance, o al vigore marziale e alla prontezza, a seconda delle inclinazioni e del desiderio del praticante. Lo stato di trance sembrava ambito come esperienza di immobilità ed equilibrio perfetto, non come satori o rivelazione. La preghiera… Be’, e la preghiera?

Gli akani non pregavano.

Sembrava una cosa così strana, così anormale, che non appena si soffermò a pensarci Sutty precisò a se stessa: era possibilissimo che lei non capisse bene cos’era la preghiera.

Se significava chiedere qualcosa, gli akani non lo facevano. Nemmeno a livello invocativo, come capitava invece a lei. Sapeva che quando era sbigottita strillava: "Oh, Rama!", e quando era molto spaventata sussurrava: "Oh, ti prego, ti prego…". Quelle parole non significavano assolutamente nulla, però lei si rendeva conto che erano una specie di preghiera. Non aveva mai sentito pronunciare niente del genere da un akano. Gli akani potevano augurarsi del bene: "Un buon anno a te, e che i tuoi affari fioriscano", come potevano maledirsi a vicenda "Che i tuoi figli mangino sassi", aveva sentito mormorare da Diodi, l’uomo del carretto, mentre passava una divisa blu e marrone. Ma quelli erano auguri, non preghiere. La gente non chiedeva a Dio di aiutarla o di distruggere i nemici. Non chiedevano agli dei di fargli vincere la lotteria o di guarirgli il figlioletto malato. Non chiedevano alle nuvole di lasciar cadere la pioggia o di far crescere il grano. Auguravano, desideravano, speravano, ma non pregavano.

Se la preghiera era lode, allora forse pregavano. Un po’ alla volta, Sutty si era resa conto che la loro descrizione dei fenomeni naturali, la farmacopea del Fecondatore, le carte celesti, gli elenchi di minerali, erano specie di litanie di lode. Pronunciando i nomi, gioivano della complessità e della specificità, della ricchezza e della bellezza del mondo, erano partecipi della pienezza dell’essere. Descrivevano, nominavano, raccontavano tutto di tutto. Ma non pregavano, non chiedevano nulla.

Né sacrificavano nulla. Tranne il denaro.

Per ottenere denaro, bisognava dare denaro: quello era un principio saldo e universale. Prima di qualsiasi affare, seppellivano delle monete d’argento e di rame, o le gettavano nel fiume, o le davano ai mendicanti. Martellavano le monete d’oro trasformandole in sottilissime lamine traslucide con cui decoravano nicchie, colonne, perfino interi muri di edifici, oppure le trafilavano ricavandone fili d’oro con cui tessevano bellissimi scialli o sciarpe da regalare a Capodanno. Le monete d’oro e d’argento scarseggiavano, dato che l’Azienda, detestando un simile spreco, aveva adottato perlopiù la cartamoneta; così la gente bruciava le banconote come incenso, faceva barchette con le banconote e le metteva a galleggiare sul fiume, le tritava fini fini e le mangiava con l’insalata. Quell’usanza era decisamente SA, ma Sutty la trovava affascinante. Uccidere capre o il proprio primogenito per placare il soprannaturale le sembrava il peggior tipo di malvagità, ma in quel sacrificio di denaro coglieva un gesto ardimentoso da giocatore d’azzardo. Tanti presi, tanti spesi. A Capodanno, quando s’incontrava un amico o un conoscente, ognuno accendeva un biglietto da un ha e lo agitava come una piccola torcia, augurando all’altro salute e prosperità. Sutty lo vide fare perfino da dipendenti dell’Azienda. Si domandò se il Controllore l’avesse mai fatto.