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Le persone più ingenue che incontrava alle narrazioni e ai corsi, e Diodi e altri amici che vedeva spesso per strada, credevano tutti nella lettura dei segni e nei prodigi alchemici e parlavano di diete che permettevano di vivere in eterno, di esercizi che avevano dato agli antichi eroi la forza di opporsi a interi eserciti. Perfino Iziezi approvava la lettura dei segni. Ma la maggior parte dei maz, i dotti, gli insegnanti, non vantavano alcun potere speciale. Vivevano decisamente e interamente nel mondo reale. Conoscevano la brama spirituale e il senso della sacralità, però per loro non esisteva nulla di più sacro del mondo, non cercavano un potere più grande della natura. Sutty ne era certa. «Niente miracoli!» disse al noter, esultante.

Codificò gli appunti, infilò cappotto e stivali, e s’incamminò nel vento maligno della primavera appena iniziata per andare al corso di esercizio fisico di maz Odiedin Manma. Dopo molte settimane, il Silong era visibile per la prima volta, non la parete imponente, solo la vetta, che spuntava come un corno argenteo dalle fosche nubi temporalesche.

Adesso andava con regolarità a esercitarsi assieme a Iziezi, e spesso si tratteneva oltre, per osservare Akidan e altri adolescenti e giovani che facevano il "due-uno", una disciplina atletica che si praticava a coppie, con finte e cadute spettacolari. Odiedin Manma, il narratore della strana storia dell’uomo che sognava di volare, era molto ammirato da quei giovani, ed erano stati alcuni di loro a farlo conoscere a Sutty, portandola da lui. Il maz insegnava un tipo di esercizio-meditazione austero e bellissimo. Aveva invitato Sutty a unirsi al gruppo.

Si trovavano in un vecchio magazzino vicino al fiume, un posto meno sicuro dell’umyazu trasformato in palestra dove lei si recava con Iziezi, ed eseguivano per davvero gli esercizi ginnici legittimi del manuale sanitario che servivano come copertura per quelli proibiti. Il magazzino era illuminato solo da feritoie sporche sotto i cornicioni. Nessuno parlava, se non sussurrando a voce bassissima. Non c’era nulla di magico e fumoso in Odiedin, ma Sutty trovava che quegli esercizi, i movimenti lenti e silenziosi nella penombra, fossero strani e ossessivi, a volte inquietanti; li sognava perfino.

Quella mattina, un uomo seduto accanto a lei la fissò mentre prendeva posto sulla stuoia. Il gruppo eseguiva la prima parte del rituale, ma l’uomo continuò a fissarla, ammiccando, gesticolando, sorridendole. Nessuno si comportava così. Seccata e imbarazzata, durante una posa da tenere a lungo, Sutty riuscì a lanciare un’occhiata a quell’individuo e si rese conto che era ebete.

Quando il gruppo iniziò una serie di movimenti che lei non conosceva ancora bene, osservò gli altri e cercò di imitarli come meglio poteva. I suoi errori e le sue omissioni turbarono il vicino, che cercò di mostrarle ripetutamente quando e come muoversi, mimando, con gesti esagerati. Quando gli altri si alzarono, Sutty rimase seduta, il che era sempre consentito, ma il povero ebete parve sconvolto. Gesticolò. "Su! Su!", la invitò muto, muovendo le labbra. E indicò verso l’alto. Infine, sussurrando: «Su… così… capito?» fece un passo nell’aria. Portò l’altro piede sulla scala invisibile, e poi salì un altro gradino nello stesso modo. Se ne stava in piedi scalzo a mezzo metro dal pavimento, e guardava Sutty dall’alto, sorridendole ansioso e invitandola con un gesto a raggiungerlo. Era in piedi a mezz’aria.

Odiedin, un cinquantenne agile e snello, con un pezzo di tessuto blu attorno al collo, gli si avvicinò. Tutti gli altri continuarono a eseguire il dondolio laborioso che ricordava l’ondeggiamento di una foresta di alghe. Odiedin mormorò: «Vieni giù, Uki». Allungò una mano, afferrò quella di Uki e gli fece scendere i due gradini inesistenti, gli batté con affetto sulla spalla e si allontanò. L’ebete si unì alla figurazione, oscillando e girando con impeccabile grazia e vigore. A quanto pareva, aveva dimenticato Sutty.

Al termine della seduta, Sutty non ebbe il coraggio di rivolgere a Odiedin alcuna domanda. Cosa doveva chiedergli? "Hai visto quello che ho visto io? E io l’ho visto davvero?" Sarebbe stato stupido. Non poteva essere successo, quindi lui senza dubbio si sarebbe limitato a rispondere alla sua domanda con una domanda.

O forse Sutty non gli chiese nulla perché temeva che il maz le rispondesse semplicemente: "Sì".

Se un mimo poteva trasformare l’aria in una scala, se un fachiro poteva arrampicarsi su una corda appesa all’aria, forse un povero ebete poteva trasformare l’aria in un gradino. Se la forza spirituale poteva muovere le montagne, forse poteva pure creare una scala. Stato di trance. Suggestione ipnotica o ipnagogica.

Sutty descrisse brevemente l’episodio negli appunti quotidiani, senza commenti. Mentre parlava al noter, si convinse che nella sala c’era davvero una specie di predellino che lei non aveva visto nella penombra, sì, un blocco di legno, forse una cassa, di colore nero. Certo che c’era qualcosa, là. Sutty fece una pausa, ma non aggiunse altro. Vedeva il blocco o la cassa, adesso. Ma non l’aveva visto, allora.

Spesso, però, rivide nella mente quei due piedi nudi, callosi, muscolosi, che salivano la montagna assente. Si chiese cosa si provasse a camminare sull’aria, che sensazione avvertissero le piante dei piedi. Un senso di fresco? Di elasticità?

In seguito, prestò più attenzione ai vecchi testi e alle vecchie storie che parlavano di camminare sul vento, cavalcare le nuvole, viaggiare tra le stelle, distruggere i nemici lontani con fulmini e saette. Simili imprese erano sempre attribuite a eroi e maz saggi vissuti in luoghi remoti tanto tempo prima, anche se molte di quelle imprese erano ormai comuni e abituali grazie alle moderne tecnologie. Sutty riteneva comunque che fossero mitiche, metaforiche, da non prendere alla lettera. Non giunse ad alcuna spiegazione.

Ma il suo atteggiamento era cambiato. Adesso sapeva di essersi ancora lasciata sfuggire il nocciolo della questione… un equivoco grossolano e assoluto di cui non si era accorta.

Una narrazione non era una spiegazione.

"Non riescono a vedere la foresta perché si perdono a osservare gli alberi, non colgono l’insieme perché badano ai particolari, i pedanti, i sapientoni" le ringhiò nella mente zio Hurree. "Poesia, ragazza, poesia. Leggi il Mahabharata. È tutto là dentro."

«Maz Elyed» chiese Sutty, «cos’è che fai?»

«Racconto, yoz Sutty.»

«Sì. Ma le storie, tutte le cose che racconti, cosa fanno?»

«Raccontano il mondo.»

«Perché, maz?»

«È quello che fa la gente, yoz. Il motivo per cui siamo qui.»

Maz Elyed, come molti maz, parlava a bassa voce e in modo piuttosto incerto, interrompendosi, ricominciando quando si aveva l’impressione che avesse terminato. Il silenzio faceva parte di tutto ciò che diceva.

Era piccola, zoppa, e molto rugosa. La sua famiglia possedeva un negozietto di ferramenta nel quartiere più povero della cittadina, un quartiere dove molte case non erano fatte di pietra e di legno, ma erano tende o iurte di feltro e tela rattoppate con pezzi di plastica, erette su piattaforme di argilla battuta. I nipoti e i pronipoti abbondavano nel negozio di ferramenta. Un bisnipote piccolissimo girellava traballando nella bottega, e sembrava che lo scopo della sua vita fosse mangiare viti e rondelle. Una vecchia fotografia 2D di Elyed con la compagna Oni era appesa alla parete dietro il banco: Oni Elyed alta e con lo sguardo sognante, Elyed Oni piccina, vispa, bellissima. Trent’anni prima, erano state arrestate per devianza sessuale e per avere insegnato ideologia marcia e corrotta. Le avevano mandate in un campo di rieducazione sulla costa occidentale. Oni era morta là. Elyed era tornata dopo dieci anni, zoppa, senza denti: persi per le percosse o per lo scorbuto, lei non l’aveva mai rivelato. Non parlava di sé, o della compagna, o della vecchiaia, o delle proprie faccende. I suoi giorni trascorrevano in una continuità rituale ininterrotta che comprendeva tutte le necessità e le funzioni corporali, preparare e consumare i pasti, dormire, insegnare, ma soprattutto leggere e narrare, una sommessa e incessante ripetizione dei testi che aveva appreso durante tutta la vita.