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All’inizio, a Sutty era parso che Elyed fosse una creatura misteriosa, che non aveva nulla di umano, indifferente e inaccessibile come una nuvola, una santa domestica che viveva interamente all’interno del sistema rituale, una specie di automa che recitava senza emozione, senza personalità. Aveva avuto paura di lei. Temeva che quella donna che incarnava appieno il sistema, che lo viveva in modo totale, la costringesse ad ammettere che si trattava di un sistema isterico, ossessivo, assolutistico, mentre lei, detestando e temendo tutte quelle caratteristiche, si augurava che non fosse così. Ma ascoltando le narrazioni di Elyed, Sutty percepiva una mente disciplinata, razionale, anche se parlava di cose irragionevoli.

Elyed usava spesso quella parola, "irragionevole", in senso letterale: ciò che non può essere compreso dalla ragione. Una volta, quando Sutty stava cercando di trovare un filo logico tra svariate narrazioni, Elyed disse: «Quello che facciamo è irragionevole, yoz».

«Ma una ragione c’è.»

«Probabilmente.»

«Quello che non capisco è lo schema. La collocazione, l’importanza delle cose nello schema. Ieri stavi raccontando la storia di Iaman e Deberren, ma non l’hai finita, e oggi hai letto la descrizione delle foglie degli alberi del boschetto della Montagna d’Oro. Non capisco che collegamento ci sia tra le due cose. O certi argomenti sono adatti a certi giorni? O le mie domande sono semplicemente stupide?»

«No» disse Elyed, e rise, una risatina sdentata. «Mi stanco a ricordare. Così leggo. Non ha importanza. Sono tutte foglie dell’albero»

«Allora… qualunque cosa… qualunque cosa si trovi nei libri è ugualmente importante?»

Elyed rifletté. «No» disse. «Sì.» Trasse un respiro tremulo. Si stancava presto quando non poteva affidarsi alla consuetudine degli atti e del linguaggio rituali, ma non congedava mai Sutty, non eludeva mai le sue domande. «È tutto quello che abbiamo. Capisci? È così che abbiamo il mondo. Senza la narrazione, non abbiamo nulla. Il momento passa come l’acqua del fiume. Noi cadremmo e ruzzoleremmo e saremmo inermi se cercassimo di vivere nel momento. Saremmo come un bambino. Un bambino può farlo, ma noi saremmo travolti. La nostra mente ha bisogno di raccontare, ha bisogno della narrazione. Per trattenere. Il passato è passato, e nel futuro non c’è nulla da afferrare. Il futuro non è ancora nulla. Nessuno può vivere nel futuro, no? Quindi, quello che abbiamo sono le parole che dicono cos’è successo e cosa succede. Quello che è stato e quello che è.»

«Memoria?» fece Sutty. «Storia?»

Elyed annuì, dubbiosa, non soddisfatta di quei termini. Rimase seduta a riflettere un po’, e infine disse: «Noi non siamo fuori dal mondo, yoz. Lo sai? Noi siamo il mondo. Siamo la sua lingua. Così noi viviamo e il mondo vive. Capisci? Se non diciamo le parole, cosa c’è nel nostro mondo?».

Stava tremando, piccoli spasmi delle mani e della bocca che cercava di nascondere. Sutty la ringraziò col gesto della montagna e del cuore, si scusò per averla affaticata con la conversazione. Elyed la tranquillizzò con la tipica risatina tutta gengive scure. «Oh, yoz, io tiro avanti grazie alle parole. Proprio come il mondo» disse.

Sutty si allontanò, pensierosa. Tutta quella insistenza sul linguaggio. Si ritornava sempre alle parole. Come i greci col loro Logos, il Verbo Ebraico che era Dio. Ma in questo caso si trattava di parole. Non del Logos, del Verbo, ma di parole. Non una, ma molte, moltissime… Nessuno creava il mondo, governava il mondo, diceva al mondo di esistere. Il mondo esisteva. E gli esseri umani ne facevano un mondo umano raccontandolo? Raccontando cosa esisteva al mondo e cosa accadeva? Qualsiasi cosa, ogni cosa… storie di eroi, carte celesti, canzoni d’amore, elenchi delle forme delle foglie… Per un attimo, Sutty pensò di aver capito.

Andò con quella comprensione parziale da maz Ottiar Uming, un’interlocutrice meno ostica di Elyed, perché voleva provare a tradurre in parole il concetto. Ma Ottiar era impegnata in un canto rituale, così Sutty si rivolse a Uming, e, chissà perché, il suo ragionamento si fece tortuoso e pedante. Non riuscì a esprimere quanto aveva intuito.

Mentre lei e il maz si sforzavano di capirsi, Uming Ottiar manifestò dell’acredine, un tipo di reazione che Sutty non aveva mai notato in quegli insegnanti pacati. Malgrado la difficoltà a parlare, Uming era un abile oratore, e iniziò abbastanza tranquillo: «Gli animali non hanno linguaggio. Hanno la loro natura. Capisci? Loro conoscono la via, sanno dove andare e in che modo, seguendo la loro natura. Ma noi siamo animali senza natura. Eh? Ammali senza natura! Questo è strano! Noi siamo molto strani! Dobbiamo parlare di come fare e cosa fare, pensarci, studiare, imparare. Capito? Siamo nati per essere ragionevoli, quindi siamo nati ignoranti. Chiaro? Se nessuno ci insegna le parole, i pensieri, rimaniamo ignoranti. Se nessuno mostra a un bambino piccolo, di due o tre anni, in che modo cercare la via, i segni lungo il sentiero, i punti di riferimento, il bambino si smarrisce sulla montagna, no? E di notte muore, di freddo. Così…» Uming dondolò un po’ il corpo.

Maz Ottiar, dall’altra parte della stanzetta, batté sul tamburo, mormorando una lunga cronaca di tempi antichi a un ascoltatore solitario, un decenne assonnato.

Maz Uming si dondolò e corrugò la fronte. «Così, senza la narrazione, le rocce e le piante e gli animali vanno avanti benissimo. Ma le persone, no. Le persone vagano smarrite. Non distinguono una montagna dal riflesso della montagna in una pozzanghera. Non distinguono un sentiero da un dirupo. Si fanno male. Si arrabbiano e si fanno male a vicenda, o lo fanno alle altre cose. Fanno male agli animali perché sono in collera. Litigano e si imbrogliano a vicenda. Vogliono troppo. Trascurano le cose. Le coltivazioni non vengono seminate. Ne vengono seminate troppe. I fiumi si sporcano di merda. La terra si sporca di veleno. La gente mangia cibo avvelenato. Tutto è confuso. Tutti stanno male. Nessuno si prende cura della gente malata, delle cose malate. Ma questo è grave, gravissimo, no? Perché badare alle cose è il nostro compito, no? Badare alle cose, badare a noi stessi. Chi altro dovrebbe farlo? Gli alberi? I fiumi? Gli animali? Quelli fanno solo ciò che sono. Ma noi siamo qui, e dobbiamo imparare in che modo starci, come fare le cose, come mandare avanti le cose nel modo giusto. Il resto del mondo sa il fatto suo. Conosce l’Uno e la Miriade, l’Albero e le Foglie. Noi sappiamo soltanto come imparare. Come studiare, come ascoltare, come parlare, come narrare. Se non raccontiamo il mondo, noi non conosciamo il mondo. Ci perdiamo nel mondo, moriamo. Ma dobbiamo raccontarlo bene, in modo veritiero. Chiaro? Dobbiamo prenderci cura di esso e raccontarlo com’è davvero. Ecco cos’è andato storto. Laggiù, laggiù nella regione di Dovza, quando hanno cominciato a raccontare bugie. Quei falsi maz, quei grandi munan, quei maz tirannici. Dicevano alla gente che solo loro conoscevano la verità, che solo loro potevano parlare, e tutti dovevano ripetere le loro bugie. Traditori, usurai! Ingannare la gente per denaro! Arricchirsi con le bugie, tiranneggiare la gente! Non c’è da meravigliarsi se il mondo ha smesso di funzionare! Non c’è da meravigliarsi se la polizia ha preso il potere!»

Il vecchio era rosso in volto, e agitava la mano sana come se stringesse un bastone. Sua moglie si alzò, gli si avvicinò e gli diede il tamburo e la bacchetta, senza interrompere la cantilena della narrazione. Uming si morse un labbro, scosse il capo, si irritò un po’, batté il tamburo piuttosto forte, e proseguì la narrazione.

«Mi dispiace» si scusò Sutty con Ottiar, mentre la vecchia l’accompagnava alla porta. «Non intendevo turbare maz Uming.»

«Oh, non è nulla» disse Ottiar. «Sono cose successe prima che io/noi nascessimo. Giù, nella regione di Dovza.»