«Non facevate parte di Dovza, quassù?»
«Siamo per la maggior parte rangma, qui. La mia/nostra gente parlava tutta il rangma. I nonni non sapevano quasi nulla di dovzano finché non è arrivata la polizia dell’Azienda e ha costretto tutti a parlarlo. Loro lo detestavano! Lo parlavano col peggior accento possibile!»
Ottiar le rivolse un sorriso allegro. Sutty ricambiò il sorriso, ma s’incamminò lungo la stradina in discesa immersa in profondi pensieri. L’invettiva di Uming contro i "maz tirannici" si riferiva a prima che l’Azienda dovzana governasse il mondo, a prima dell’"arrivo della polizia", forse a prima che arrivassero gli Osservatori dell’Ekumene. Mentre il maz parlava, Sutty si era resa conto che delle centinaia di storie e racconti che aveva sentito nelle narrazioni, nessuna riguardava avvenimenti dovzani, o avvenimenti degli ultimi cinque o sei decenni, se non fatti strettamente locali. Non aveva mai sentito un maz parlare dell’arrivo degli extraplanetari, dell’ascesa dello Stato Azienda, o di qualche evento pubblico degli ultimi settant’anni o più.
«Iziezi» chiese quella sera, «chi erano i maz tirannici?»
Stava aiutando Iziezi a pelare una varietà di fungo appena spuntata sulle colline ai margini dei cumuli di neve che stavano sciogliendosi. Si chiamava "demyedi", "primo di primavera", sapeva di neve, ed era ottimo per bilanciare i germogli piccanti di banam e il grasso sostanzioso del pesce, mantenendo così fluida la linfa e tranquillo il cuore. Qualunque cosa le fosse sfuggita e avesse frainteso in quel mondo, Sutty aveva almeno imparato quando, perché e come cucinarsi il cibo.
«Oh, è stato molto tempo fa» rispose Iziezi. «Quando hanno cominciato a tiranneggiare tutti, là a Dovza.»
«Cent’anni fa?»
«Forse tanto tempo fa, sì.»
«Chi è "la polizia"?»
«Oh, sai, quelli in divisa blu e marrone.»
«Solo loro?»
«Be’, immagino che chiamiamo "polizia" tutta quella gente. Di laggiù. I dovzani… Prima arrestavano i maz tiranni. Poi hanno cominciato ad arrestare tutti i maz. Quando hanno mandato quassù dei soldati ad arrestare la gente negli umyazu, abbiamo cominciato a chiamarli "la polizia". E chiamiamo "polizia" anche gli skuyen. O diciamo che "lavorano per la polizia".»
«Gli skuyen?»
«Quelli che denunciano alle divise blu e marrone le cose illegali. Libri, narrazioni, qualsiasi cosa… Per soldi. O per odio.» La voce gentile di Iziezi cambiò, pronunciando le ultime parole. La sua faccia si era chiusa nell’abituale espressione di sofferenza.
Libri, narrazioni, qualsiasi cosa. Quello che si cucinava. Con chi si faceva l’amore. Come scrivevi la parola albero. Qualunque cosa.
Non c’era da meravigliarsi se il sistema era incoerente, frammentario. Non c’era da meravigliarsi se il mondo di Uming aveva smesso di funzionare. Era un miracolo che di quel mondo rimanesse ancora qualcosa.
Come se le intuizioni di Sutty l’avessero evocato dal nulla, la mattina seguente il Controllore le passò accanto per strada. Non la guardò.
Alcuni giorni dopo, Sutty andò a trovare maz Sotyu Ang. Il negozio era chiuso. Non era mai stato chiuso, prima. Sutty chiese a un vicino che stava spazzando il gradino d’ingresso se Sotyu avrebbe riaperto presto. «Credo che il produttore-consumatore sia via» rispose vago l’uomo.
Maz Elyed le aveva prestato un bellissimo libro antico… prestato o donato, Sutty non ne era sicura. «Tienilo, è al sicuro con te» le aveva detto. Era un’antica antologia di poesie delle Isole Orientali, un tesoro inesauribile. Sutty era impegnatissima a studiarla e trasferirla nel noter. Passarono parecchi giorni prima che pensasse di nuovo di andare a trovare il vecchio amico, il Fecondatore. S’incamminò lungo la salita ripida di ardesia che brillava abbagliante al sole. La primavera arrivava tardi ma veloce in quelle colline pedemontane della grande catena. L’aria era uno sfolgorio di luce. Sutty passò davanti al negozio senza riconoscerlo.
Disorientata, tornò indietro, e trovò il negozio. Era tutto bianco: imbiancato, una facciata spoglia. Tutte le scritte, i caratteri marcati, le vecchie parole… tutto scomparso. Ridotto al silenzio. Una nevicata bianca… La porta era socchiusa. Sutty guardò dentro. Il banco e le pareti di cassettini erano stati divelti. La stanza era vuota, sporca, saccheggiata. Sui muri, le parole vive, le parole che respiravano, erano state cancellate con pittura marrone.
L’albero-lampo biforcuto…
Il vicino del Fecondatore era uscito quando lei era passata. Stava ancora spazzando il gradino. Sutty fece per parlargli, poi si trattenne. Uno skuyen? Da cosa poteva capirlo?
Si avviò verso casa e poi, vedendo il fiume luccicare in basso, svoltò, seguì il fianco della collina e uscì dall’abitato, imboccò un sentiero che scendeva fino al fiume e lo costeggiava. Aveva percorso quel sentiero una volta, un giorno di tanto tempo addietro, all’inizio dell’autunno, quando aspettava che Tong Ov le dicesse di tornare nella metropoli.
Andò verso la sorgente, passando accanto a boschetti di arbusti che avevano messo le foglie nuove, e agli alberi stentati che crescevano lì, non lontano dal limite della vegetazione arborea. L’Ereha scorreva azzurro latteo, arricchito dalla prima acqua di scioglimento dei ghiacciai. Il ghiaccio scricchiolava nei solchi del sentiero, ma il sole era caldo sul capo e sulla schiena di Sutty. Aveva ancora la bocca secca per la sorpresa. E la gola le faceva male.
Tornare in città. Doveva tornare in città. Subito. Con i tre cristalli registrati e il noter pieno di materiale, pieno di poesia. Dare tutto a Tong Ov prima che il Controllore se ne impossessasse.
Non c’era modo di inviarlo. Doveva portarlo lei. Ma il viaggio doveva essere autorizzato. Oh, Rama! Dov’era il suo chip d’identità? Erano mesi che non lo metteva. Nessuno lì usava i chip d’identità, a meno che non si lavorasse per l’Azienda o non si dovesse andare in qualche ufficio. Era nella valigetta, nella sua stanza. Avrebbe dovuto usare il codice d’identità al telefono di Dock Street, mettersi in contatto con Tong Ov, chiedergli di farle avere un’autorizzazione per tornare in città. In aereo. Raggiungere Eltli col battello fluviale e prendere l’aereo là. Agire alla luce del sole, perché tutti sapessero, così non avrebbero potuto fermarla di nascosto, ingannarla in qualche modo. Confiscarle il materiale. Ridurla al silenzio… Dov’era maz Sotyu? Cosa gli stavano facendo? Era colpa sua?
Non poteva pensarci, adesso. Doveva cercare di salvare quello che aveva appreso da Sotyu. Sotyu e Ottiar e Uming e Odiedin e Elyed e Iziezi, la cara Iziezi. Non poteva pensare ad altro, adesso.
Fece dietrofront, ripercorse in fretta il sentiero lungo il fiume e tornò a Okzat-Ozkat, trovò il bracciale col chip d’identità nella valigetta in camera sua, andò in Dock Street e chiamò Tong Ov all’Ufficio Ekumenico di Dovza City.
Rispose la segretaria dovzana di Tong Ov, e disse altezzosa che Tong era in riunione. «Devo parlargli subito» insisté Sutty, e non fu sorpresa quando la segretaria rispose in tono mite che l’avrebbe chiamato.
Non appena sentì la voce di Tong Ov, Sutty disse in hainiano, e le parole le suonarono strane, aliene: «Inviato, è parecchio che non mi faccio viva, e ho pensato che fosse il caso di parlare un po’».
«Capisco» fece Tong, e aggiunse alcune altre cose insignificanti, mentre entrambi cercavano di trovare il modo di dire qualcosa di importante. Peccato che lui non conoscesse qualcuna delle lingue studiate da Sutty, e che lei non sapesse il chiffewariano. Purtroppo le uniche lingue che conoscevano tutti e due erano l’hainiano e il dovzano.
«Nulla in particolare da devolvere?» domandò Tong Ov.
«No, no, non proprio… Però mi piacerebbe portarti il materiale che ho raccolto» spiegò Sutty. «Solo appunti sulla vita quotidiana a Okzat-Ozkat.»
«Speravo di venirti a trovare lì, ma pare che la cosa sia controindicata, al momento» disse Tong. «Con una finestra grande appena per uno, naturalmente è un peccato chiudere le imposte. Ma so che ami molto Dovza City, e immagino che ti manchi. Inoltre sono certo che tu non abbia trovato nulla di particolarmente interessante, lì. Quindi, se il tuo lavoro è finito, torna pure in città a divertirti.»