Sutty cercò di non lasciare alcuna traccia, nessuna "orma nella polvere". Non informò Tong, gli comunicò soltanto che aveva intenzione nei prossimi mesi di fare qualche breve escursione nei dintorni. Non disse nulla agli amici, né ai conoscenti né agli insegnanti, a parte Elyed e Odiedin. Era preoccupata per i cristalli… quattro, adesso, perché aveva scaricato di nuovo il noter. Non poteva lasciarli a casa di Iziezi, il primo posto dove le divise blu-marroni li avrebbero cercati. Si stava arrovellando per decidere dove e come sotterrarli senza essere vista, quando Ottiar e Uming, con la massima indifferenza, le dissero che, dato il gran daffare della polizia in quei giorni, avevano intenzione di nascondere per qualche tempo il loro mandala in un luogo sicuro… lei, per caso, aveva qualcosa da mettere al sicuro insieme al mandala? La loro intuizione le parve sorprendente, poi però ricordò che anche loro facevano parte della rete, che da quando erano adulti erano sempre vissuti in segretezza, nascondendo tutto ciò che per loro era prezioso. Diede ai maz i cristalli. Loro le dissero dov’era il nascondiglio. «Non si sa mai» fece Ottiar, pacata. Sutty disse ai maz chi era Tong Ov e cosa riferirgli, caso mai fosse successo qualcosa. Si separarono con abbracci affettuosi.
Infine, Sutty parlò a Iziezi del lungo viaggio che intendeva fare sulle montagne.
«Akidan verrà con te» annunciò Iziezi con un sorriso allegro.
Akidan era fuori con alcuni amici. Le due donne stavano cenando insieme nell’angolo con tappeto rosso della cucina immacolata di Iziezi. Era una serata di "piccolo banchetto": parecchi piattini con vivande dal sapore intenso ma delicato, attorno a un mucchio di tuzi morbido e insipido. A Sutty ricordava il cibo della sua infanzia lontana. «Ti piacerebbe il riso basmati, Iziezi!» disse. Poi si rese conto di quello che aveva detto l’amica.
«Sulle montagne? Ma… Può darsi che stiamo via a lungo.»
«Akidan è salito sulle colline parecchie volte. Quest’estate compirà diciassette anni.»
«Ma tu cosa farai?» Akidan sbrigava le commissioni della zia, faceva la spesa per lei, le puliva la casa, le portava le cose, l’aiutava quando le scivolava una stampella.
«La figlia di mia cugina verrà a stare con me.»
«Mizi? Ma ha appena sei anni!»
«È un aiuto.»
«Iziezi, non so se sia una buona idea. Può darsi che vada molto lontano. Può darsi addirittura che passi l’inverno in uno dei villaggi lassù.»
«Cara Sutty, non devi preoccuparti di Ki. Maz Odiedin Manma gli ha detto di venire. Andare con un maestro al Grembo del Silong è il sogno della sua vita. Ki vuole diventare maz. Naturalmente, deve crescere e trovare una compagna. Forse, adesso pensa soprattutto a trovare una compagna.» Iziezi sorrise un po’, non tanto allegramente. «I suoi genitori erano maz.»
«Tua sorella?»
«Lei era maz Ariezi Meneng.» La donna usò il pronome proibito, lei/lui/loro. Il suo viso adesso aveva assunto la consueta espressione sofferente. «Erano giovani» disse. Una lunga pausa. «Il padre di Ki, Meneng Ariezi, era amato da tutti. Era come i vecchi eroi, come Penan Teran, così bello e coraggioso… Credeva che essere maz equivalesse a indossare una corazza. Credeva che nulla potesse ferire lui/lei/loro. Allora, per un certo periodo, tre o quattro anni, le cose procedettero più o meno come ai vecchi tempi. Nessun arresto. Niente più frotte di giovani dovzani a rompere finestre, dipingere tutto di bianco, a strillare… La situazione si era calmata. La polizia non veniva qui spesso. Pensavamo che fosse finita, che tutto sarebbe tornato come un tempo. Poi all’improvviso arrivò una moltitudine di dovzani. Sono fatti così. Arrivano all’improvviso. Dissero che qua c’erano troppe persone che violavano la legge, leggevano, narravano… Dissero che avrebbero pulito la città. Pagarono gli skuyen perché facessero la spia. Certe persone che conoscevo accettarono i loro soldi.» La sua faccia era tesa, cupa. «Arrestarono parecchia gente. Mia sorella e suo marito. Li portarono in un luogo chiamato Erriak. Un posto lontano. Un’isola, penso. Un’isola in mezzo al mare. Un centro di riabilitazione. Cinque anni fa abbiamo saputo che Ariezi era morta. Abbiamo ricevuto una comunicazione. Non abbiamo più avuto notizie di Meneng Ariezi. Forse è ancora vivo.»
«Quanto tempo fa…?»
«Dodici anni.»
«Ki aveva quattro anni?»
«Quasi cinque. Li ricorda un po’, i genitori. Io cerco di aiutarlo a ricordarli. Gli parlo di loro.»
Sutty rimase a lungo in silenzio. Sparecchiò la tavola, infine tornò a sedersi. «Iziezi, sei mia amica. Akidan è come un figlio per te. Non posso non preoccuparmi di lui. Potrebbe essere un viaggio pericoloso. Potrebbero seguirci.»
«Nessuno segue la gente della Montagna sulla Montagna, cara Sutty.»
Avevano tutti quella sicurezza serena, temeraria, quando parlavano delle montagne. Nessun problema. Nulla da temere. Forse dovevano pensare così, per riuscire a tirare avanti.
Sutty comprò due sacchi a pelo leggerissimi dalle proprietà termiche miracolose, uno per sé e uno per Akidan. Iziezi protestò, pro forma. Akidan ne fu entusiasta e, come un bambino, da quella notte dormì nel sacco a pelo soffocando dal caldo.
Sutty tirò fuori stivali e capi pesanti, preparò lo zaino, e di prima mattina, il giorno stabilito, raggiunse con Akidan il luogo di raduno. Era primavera inoltrata, quasi estate. Le strade erano blu scuro nella luce incerta del mattino, ma lassù a nordovest la grande parete si ergeva illuminata a giorno, la vetta sventolava le sue fulgide bandiere. "Andiamo là" pensò Sutty. "Andiamo là!" E abbassò lo sguardo per vedere se aveva ancora i piedi per terra o se camminava a mezz’aria.
Vasti pendii s’innalzavano tutt’intorno, convergevano verso ghiacciai sospesi e il chiarore accecante di banchi di ghiaccio nascosti. Il loro gruppo di otto persone arrancava in fila, così minuscolo in quell’immensità da sembrare fermo. In alto, sopra di loro, volteggiavano due geyma, gli uccelli necrofagi dalle lunghe ali che vivevano solo tra le vette e volavano sempre in coppia.
Erano partiti in sei: Sutty, Odiedin, Akidan, una giovane di nome Kieri e una coppia di maz sulla trentina, Tobadan e Siez. In un villaggio collinare a quattro giorni da Okzat-Ozkat si erano unite al gruppo due guide, uomini schivi e garbati, con il viso segnato dalle intemperie, di cui era difficile stabilire l’età… dai trenta ai settant’anni. Si chiamavano Ieyu e Long.
Il gruppo era andato su e giù per le colline per una settimana, prima di raggiungere quelle che la gente del luogo chiamava "montagne". Poi era iniziata l’ascesa. Ormai stavano salendo costantemente da undici giorni.
La parete luminosa del Silong sembrava sempre uguale, non più vicina. Un paio di vette insignificanti da cinquemila metri, a nord, avevano cambiato posizione, rimpicciolendo un poco. Le guide e i tre maz, con la loro memoria abituata ai dettagli descrittivi e alle cifre, conoscevano nome e altezza di tutte le vette. Usavano una unità di misura particolare per l’altitudine, il pieng. A quanto ricordava Sutty, quindicimila pieng erano circa cinquemila metri; ma dato che non era sicura di ricordare bene, perlopiù lasciava le cifre in pieng. Le piaceva sentir parlare di quelle grandi altezze, ma non cercava di ricordarle, né di tenere a mente i nomi delle montagne e dei passi. Prima della partenza, aveva deciso di non chiedere mai dove fossero, dove stessero andando, o quanto mancasse alla meta. Era stato facile mantenere quel proposito, perché le consentiva di essere libera e spensierata.
Non c’erano sentieri veri e propri, se non nei pressi dei villaggi, ma c’erano carte che, come quelle dei piloti fluviali, indicavano la rotta mediante punti di riferimento e allineamenti: "Quando la scarpata nord del Mien rimane dietro gli Orecchi di Taziu…". Odiedin e gli altri maz consultavano le carte ogni notte, insieme alle due guide che si erano unite al gruppo nelle colline. Sutty ascoltava la poesia delle parole. Non chiedeva il nome dei minuscoli villaggi che attraversavano. Se l’Azienda, o anche l’Ekumene, avessero preteso di conoscere la strada che portava al Grembo del Silong, lei avrebbe potuto rispondere con la massima sincerità di non conoscerla.