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Non sapeva neppure il nome del luogo dov’erano diretti. L’aveva sentito chiamare la Montagna, il Silong, il Grembo del Silong, la Radice Madre, l’Umyazu Alto. Forse c’era più di un luogo. Lei non ne sapeva nulla. Resisteva al desiderio di imparare il nome di ogni cosa, la parola per ogni cosa. Viveva tra persone per le quali la massima realizzazione spirituale era raccontare il mondo fedelmente, e che erano state ridotte al silenzio. Lì, in quel silenzio più profondo, dove loro potevano parlare, Sutty voleva imparare ad ascoltarle. Non a fare domande, solo ad ascoltare. Avevano diviso con lei la dolcezza della vita quotidiana vissuta con sollecitudine. Adesso lei divideva con loro l’ardua ascesa alle vette.

Aveva temuto di non essere in grado, fisicamente, di affrontare il viaggio. Un mese nella regione collinare del Ladakh e alcune escursioni nelle Ande cilene durante le vacanze costituivano le sue esperienze alpinistiche, e quelle non erano state arrampicate, ma semplici camminate in salita. Era quello che stavano facendo anche adesso, però Sutty si chiedeva fino a quale altitudine si sarebbero spinti. Non aveva mai superato i quattromila metri. Finora, anche se ormai dovevano trovarsi a quell’altezza, non aveva avuto problemi, a parte il respiro affannoso nei tratti di salita più ripidi. Anche Odiedin e le guide procedevano adagio quando il sentiero era particolarmente erto. Solo Akidan e Kieri, una ragazza robusta e paffuta di circa vent’anni, correvano sui pendii interminabili, e danzavano su affioramenti di granito sopra grandi abissi azzurri, e non avevano mai il fiato grosso. Gli eberdibi, li chiamavano gli altri: i bambinetti, i cuccioli.

Avevano camminato tutto il giorno per arrivare a un villaggio estivo: sei o sette cerchi di pietra su cui erano state erette delle iurte, tra ripidi pascoli sassosi a ridosso di un’immensa parete coperto che tanta gente abitava lassù, dove sembdi granito. Sutty era rimasta sbalordita quando aveva srava che si potesse vivere solo di aria, ghiaccio e roccia. Le vaste colline pedemontane sopra Okzat-Ozkat, in apparenza aride, erano in realtà piene di villaggi, pascoli, piccoli campi con muretti di pietra. Perfino lì in alto, tra le vette, c’erano abitazioni: i villaggi estivi. Verso la fine della primavera, quando la neve non bloccava più il cammino, i paesani salivano dalle colline coi loro animali, gli eberdin di razza minule. Cornuti, semiselvatici, con lunghe zampe e un lungo vello chiaro, i minule pascolavano fin dove cresceva l’erba, e partorivano i piccoli nei più alti prati alpini. Il loro vello fine e serico era prezioso anche allora, nell’era delle fibre sintetiche. I paesani ne vendevano la lana, ne bevevano il latte, conciavano le pelli per ricavarne scarpe e indumenti, e usavano lo stereo come combustibile.

Quella gente viveva così da sempre. Per loro, Okzat-Ozkat, un remoto avamposto provinciale della civiltà, era la civiltà. Erano tutti rangma. Parlavano un po’ il dovzano nella regione collinare, e Sutty poteva conversare discretamente con Ieyu e Long; ma lassù, anche se il suo rangma era migliorato moltissimo durante l’inverno, faticava a capire il dialetto di montagna.

Gli abitanti del villaggio accorsero tutti ad accogliere i visitatori, una confusione di sorridenti facce sporche bruciate dal sole, ragazzini che correvano, bambini timorosi avvolti in bozzoli di cuoio e appesi a pertiche come piccoli trofei, minule che belavano accanto ai loro cuccioli, candidi e silenziosi. Vita, vita in abbondanza in quei luoghi elevati e deserti.

In alto, come sempre, una coppia di geyma volteggiava lenta su slanciate ali scure nel blu abbacinante.

Odiedin e la giovane coppia di maz, Siez e Tobadan, erano già indaffarati a benedire capanne e bambini e bestiame, a curare piaghe e occhi infiammati, e a narrare. La benedizione, sempre che quella fosse la parola giusta — la parola usata dai maz significava più o meno "inclusione" o "introduzione" — consisteva in un canto rituale accompagnato da colpi di tamburello e nella distribuzione di striscioline di carta rossa o blu su cui i maz scrivevano il nome e l’età del destinatario, e qualsiasi fatto biografico il destinatario chiedesse di scrivere. Per esempio:

"Sposato con Temazi quest’inverno."

"Ho costruito la mia casa nel villaggio."

"Ho messo al mondo un figlio lo scorso inverno. È vissuto un giorno e una notte. Il suo nome era Enu."

"Ventidue minule sono nati quest’anno nel mio gregge."

"Io sono Ibien. Questa primavera ho compiuto sei anni."

Gli abitanti dei villaggi sapevano leggere solo qualche carattere o non sapevano leggere affatto, almeno questa era l’impressione che aveva avuto Sutty. Toccavano con timore reverenziale e intensa soddisfazione le striscioline di carta scritte. Le esaminavano a lungo da ogni angolazione, le piegavano con cura, le infilavano in borse speciali o in scatole finemente decorate che tenevano nelle case o nelle tende. I maz avevano officiato una benedizione o una cerimonia collettiva di quel tipo in ogni villaggio attraversato che non disponesse di un maz proprio. Alcune delle scatole narrative nelle case dei villaggi, splendidamente intarsiate e decorate, contenevano centinaia di quei piccoli documenti rossi e blu, che raccontavano vite presenti, vite passate.

Odiedin li stava scrivendo per una famiglia, Tobadan stava dando erbe e unguenti a un’altra famiglia, e Siez, terminato il canto, si era seduto con gli altri abitanti del villaggio per narrare. Siez era un giovane taciturno dagli occhi a fessura, ma nei villaggi diventava un torrente di parole.

Stanca e con la testa che le girava un po’ — dovevano essere saliti di un altro chilometro, quel giorno — e godendosi il sole pomeridiano, Sutty si unì al semicerchio attento di uomini e donne e bambini, si sedette a gambe incrociate sul terreno sassoso, e ascoltò insieme a loro.

«La narrazione!» esordì solenne, a voce alta, Siez, e fece una pausa.

Il suo pubblico emise un suono sommesso, ah, ah, e ci fu uno scambio di mormorii.

«La narrazione di una storia!»

Ah, ah, mormorii…

«La storia è il caro Takieki!»

Sì, sì. Il caro Takieki, sì.

«Ora la storia inizia! Ora, la storia inizia quando il caro Takieki viveva ancora insieme alla vecchia madre, essendo un uomo adulto, ma sciocco. Sua madre morì. Era povera. Tutto ciò che aveva da lasciargli era un sacco di farina di fagioli che aveva tenuto in serbo per loro perché la mangiassero durante l’inverno. Il padrone di casa venne e cacciò Takieki.»

Ah, ah, mormorarono gli ascoltatori, annuendo mesti.

«Così Takieki si mise in cammino lungo la strada con il sacco di farina di fagioli in spalla. Camminò e camminò, e giunto su una collina vide avanzare verso di lui un uomo lacero. S’incontrarono sulla strada. L’uomo disse: "È un sacco pesante, quello che porti, giovanotto. Mi mostri cosa contiene?". E Takieki lo fece. "Farina di fagioli!" disse il pezzente.»

«Farina di fagioli» mormorò un bambino.

«"E che bella farina di fagioli è! Ma non ti basterà per tutto l’inverno. Farò un affare con te, giovanotto. Ti darò un vero bottone di ottone per quella farina!" Takieki disse: "Oh, oh, credi di imbrogliarmi, ma non sono così sciocco!".»

Ah, ah.