L’uomo la fissò, distolse lo sguardo, fece un gesto debole, provò a sollevarsi a sedere. Odiedin gli premette con delicatezza sulle spalle, dicendo: «Non muoverti. Aspetta. Sutty, non lasciarlo alzare. Dobbiamo tirare fuori l’altro uomo. Tra poco verranno a darci una mano».
Girandosi verso la conca, verso le caverne, Sutty vide delle sagome minuscole che attraversavano la neve, affrettandosi verso di loro.
Prese il posto di Odiedin, e rimase in piedi accanto al Controllore. Il ferito era steso sul terreno con le braccia incrociate sul petto. Di tanto in tanto, rabbrividiva. Anche lei tremava. Batteva i denti. Si strinse le braccia attorno al corpo.
«Il tuo pilota è morto» gli disse.
Lui non disse nulla. Rabbrividì.
All’improvviso, ci furono altre persone attorno a loro. Lavorarono con efficienza: immobilizzarono il ferito su una barella di fortuna, sollevarono la barella e si incamminarono verso le caverne, il tutto in un paio di minuti. Altre persone trasportarono il morto. Alcuni si radunarono attorno a Odiedin e ai giovani maz. C’era un ronzio sommesso di voci che non facevano che ronzare nella testa di Sutty, senza senso come il linguaggio delle mosche.
Cercò Long, lo raggiunse, e insieme attraversarono la conca. Erano più lontano di quanto non sembrasse, la parete della montagna e l’ingresso delle caverne. In alto, un paio di geyma si libravano in lunghe spirali lente. Il sole era già dietro la sommità della parete. La gigantesca ombra blu del Silong si stagliava contro lo Zubuam.
Le caverne erano diverse da qualsiasi cosa Sutty avesse mai visto. Erano numerose, centinaia, alcune minuscole, nient’altro che bollicine nella roccia, altre grandi quanto porte di hangar. Formavano un merletto di cerchi, congiungendosi e sovrapponendosi nella parete di roccia, intagli, motivi. I bordi delle imboccature erano ornati da gruppi di cerchi più piccoli, pietra argentea che brillava sul nero tenebra, simili a bolle di sapone, schiuma, ai contorni di figure di Mandelbrot.
Davanti a un ingresso era stata alzata una piccola staccionata. Mentre passavano, Sutty diede un’occhiata dentro, e il muso bianco di un giovane minule la guardò con tranquilli occhi scuri. C’era un’intera stalla di minule nelle caverne. Sutty sentiva il loro odore pungente, caldo, erbaceo. Le imboccature delle caverne erano state allargate e portate a livello del suolo dove necessario, ma avevano conservato la loro forma circolare. Le persone che lei e Long stavano seguendo entrarono in una di quelle grandi porte rotonde che immettevano nella montagna. Quando fu all’interno, Sutty si voltò un attimo a guardare l’entrata e vide la luce del giorno come un perfetto cerchio ardente incastonato nel nero assoluto.
Sette
Non era una città con vessilli e processioni auree, né un tempio con tamburi e campane e salmodiare di sacerdoti. Era un luogo molto freddo, molto buio, molto povero. Silenzioso.
Cibo, stuoie e coperte, olio per le lampade, fornelli e stufe, tutto quello che consentiva di vivere lì, al Grembo del Silong, doveva essere portato dalle colline orientali a dorso di minule o in zaini sulle spalle di esseri umani, un poco alla volta, in piccolissime carovane che non attirassero l’attenzione, nei pochi mesi in cui era possibile raggiungere il luogo. D’estate vi si trovavano trenta o quaranta uomini e donne, che vivevano nelle caverne. Alcuni di loro portavano libri, carte, testi della Narrazione. Si fermavano per sistemare e proteggere tutti i libri che si trovavano già lì, le migliaia e migliaia di volumi portati nel corso dei decenni da ogni angolo del grande continente. Si fermavano a leggere e a studiare, per stare con i libri, per stare nelle caverne piene di essere.
Nei primi giorni che trascorse in quel luogo, a Sutty parve di vivere in un sogno fatto di oscurità, di stranezza. Le caverne erano di per sé stupefacenti: cavità sferiche infinite, collegate, comunicanti, pareti e pavimenti e soffitti bui che curvavano e si fondevano senza soluzione di continuità, così disorientanti che a volte lei aveva la sensazione di fluttuare senza peso. I suoni echeggiavano e quindi non si capiva da che direzione provenissero. Non c’era mai abbastanza luce.
I pellegrini del suo gruppo piantarono le tende in una grande cavità a volta e dormirono entro quei ripari, rannicchiandosi per scaldarsi, come avevano fatto durante il viaggio. In altre caverne c’erano altre piccole costellazioni di tende. Una coppia di maz aveva occupato un anfratto quasi perfettamente sferico di circa tre metri e ne aveva fatto il proprio rifugio privato. Fornelli e tavoli si trovavano in un’ampia caverna dal fondo piatto che riceveva luce da un paio di aperture in alto, e tutti si riunivano là all’ora del pasto. I cuochi suddividevano il cibo con scrupolo. Mai abbastanza, e sempre le stesse poche cose: tè lungo, farinata di fagioli, formaggio stagionato, foglie essiccate di yota simili a spinaci, un assaggio di sottaceti piccanti. Cibo invernale, anche se era estate. Cibo per le radici, per aumentare la resistenza.
I maz e gli studenti e le guide che si trovavano lì quell’estate erano tutti del Nord e dell’Est, delle vaste terre collinari e delle pianure del centro del continente, Amareza, Doy, Kangnegne. Quei maz erano gente di città, molto più eruditi e raffinati dei maz della cittadina di collina che Sutty conosceva. Portatori di una profonda e ancora intatta disciplina intellettuale, fisica e spirituale, eredi di una tradizione più vasta di quanto Sutty avesse mai immaginato, anche se in rovina e costretta alla segretezza, avevano un che di impersonale oltre a emanare un’aura di autorevolezza. Non si atteggiavano a sapientoni (l’espressione era di zio Hurree), ma perfino il più mite di loro era circondato da quella specie di aura o campo — Sutty detestava simili parole eppure doveva usarle — che impediva all’interlocutore un approccio informale. Erano distaccati, immersi nella narrazione, nei libri, nei tesori delle caverne.
La mattina seguente l’arrivo dei nuovi venuti, i maz di nome Igneba e Ikak li condussero a visitare quella che chiamavano la Biblioteca. Dei numeri scritti con pittura luminescente sopra le aperture corrispondevano a una mappa delle caverne che i maz mostrarono al gruppetto. Passando sempre a un numero più basso, se ci si smarriva nel labirinto — ed era facilissimo — si tornava sempre nelle caverne esterne. L’uomo, Igneba Ikak, aveva una torcia elettrica, ma come tanti prodotti akani era inaffidabile o difettosa e continuava a spegnersi. Ikak Igneba aveva una lampada a olio. Con quella, un paio di volte, accese delle lampade appese alle pareti, per illuminare le caverne dell’essere, le camere sferiche piene di parole, dov’era nascosta la Narrazione, nel silenzio. Sotto la roccia, sotto la neve.
Libri, migliaia di libri, rilegati in pelle e in tela e in legno e in brossura, manoscritti non rilegati in scatole intarsiate e dipinte, in scrigni ingemmati, frammenti di antica scrittura scintillanti su lamina d’oro, rotoli di carta in tubi e casse o legati con nastro, libri di cartapecora, pergamena, carta di stracci, carta di pasta di legno, scritti a mano, stampati, libri sui pavimenti, in scatole, in piccole casse, su basse mensole traballanti costruite utilizzando i coperchi delle casse. In una grande caverna, i volumi erano disposti su due ripiani, uno all’altezza della cintola l’altro degli occhi, scavati nella parete lungo l’intera circonferenza. Quei ripiani risalivano a molto tempo addietro, spiegò Ikak; erano stati scavati da maz che vivevano lì quando il luogo era un piccolo umyazu e quella sala costituiva l’intera biblioteca. Quei maz avevano avuto il tempo e i mezzi per completare un lavoro simile. Adesso, loro potevano solo stendere fogli di plastica per proteggere i libri dalla polvere e dal contatto con la roccia viva, ammucchiarli o sistemarli alla meglio, cercare di ordinarli almeno un po’, e tenerli nascosti, tenerli al sicuro. Proteggerli, custodirli, e, quando c’era tempo, leggerli.
Ma nessuno in una vita avrebbe potuto leggere più di un frammento di quello che c’era lì, di quel labirinto incompleto di parole, di quell’immensa storia spezzata di un popolo e di un mondo attraverso i secoli, attraverso i millenni.