Odiedin si sedette sul pavimento di una caverna fiocamente illuminata e silenziosa, dove i libri partivano dall’ingresso in tante file, simili a cumuli di erba falciata, file scure, però, che si perdevano nell’oscurità. Si sedette sul pavimento di pietra, tra due file, raccolse un piccolo libro con una copertina di tela logora e lo tenne in grembo. Piegò il capo sul libro senza aprirlo. Lacrime gli rigarono le gote.
Erano liberi di andare nelle caverne biblioteca quando volevano. Nei giorni successivi, Sutty vi tornò più volte, vagando guidata dal raggio piccolo ma intenso di una lampada a olio, fermandosi qua e là a leggere. Aveva con sé il noter e con lo scanner copiò quello che leggeva, spesso interi libri che non aveva il tempo di leggere. Lesse i testi delle benedizioni, i protocolli delle cerimonie, ricette, prescrizioni per curare la febbre e per vivere a lungo, storie, leggende, annali, vite di maz famosi, vite di oscuri mercanti, testimonianze di gente vissuta migliaia di anni prima e pochi anni prima, racconti di viaggi, meditazioni di mistici, trattati di filosofia e di matematica, erbari, bestiari, anatomie, geometrie reali e metafisiche, mappe di Aka, mappe di mondi immaginari, storie di terre antiche, poesie. Tutte le poesie del mondo erano lì.
S’inginocchiò accanto a una cassa piena di carte e di libri logori fatti a mano, materiale recuperato da qualche piccolo umyazu, salvato dai bulldozer e dagli incendi, portato lassù percorrendo le vie impervie della Montagna perché fosse al sicuro, perché venisse conservato, perché narrasse. Alla luce della lampada sul pavimento di pietra, aprì un libro, un sillabario. Gli ideogrammi erano scritti in grande e senza qualificativi di aspetto, modo, numero, Elemento. Su una pagina, c’era un’incisione grossolana, l’immagine di un uomo che pescava da un ponte a schiena d’asino. LA MONTAGNA È LA MADRE DEL FIUME, dicevano gli ideogrammi sotto l’illustrazione.
Sutty rimaneva nelle caverne a leggere finché le parole dei morti, il silenzio assoluto, il freddo, il globo d’oscurità attorno a lei non diventavano troppo estranianti. Allora tornava alla luce del giorno e al suono delle voci dei vivi.
Adesso sapeva che tutto quello che avrebbe potuto conoscere della Narrazione sarebbe stato soltanto un minimo cenno o frammento di quanto c’era da sapere. Ma a lei stava bene così; era così e basta. L’importante era sapere che esisteva.
Una coppia di maz stava compilando un catalogo dei libri, usando la versione akana del noter di Sutty. Salivano alle caverne da vent’anni, lavorando al catalogo. Ne discussero con lei entusiasti, e lei promise di provare a collegare il suo noter al loro per duplicare e trasferire le informazioni.
Anche se i maz la trattavano sempre con cortesia e rispetto, la conversazione era perlopiù formale e spesso difficile. Dovevano parlare tutti in una lingua che non era la loro, il dovzano. Sebbene gli akani lo parlassero in pubblico quando erano "laggiù", non era la lingua in cui pensavano, e non era la lingua della Narrazione. Era la lingua del nemico. Era una barriera. Sutty si rese conto di essersi sentita molto più in sintonia con la gente di Okzat-Ozkat quando aveva imparato la lingua rangma. Parecchi maz della Biblioteca conoscevano l’hainiano, che veniva insegnato nelle università dell’Azienda come segno di vera istruzione. Non era di grande utilità, lì… tranne, forse, in una conversazione che Sutty ebbe con la giovane maz Unroy Kigno.
Uscirono insieme per godersi la luce del sole un’oretta, e per cancellare le impronte. Da quando l’elicottero si era avvicinato tanto alle caverne — non era mai successo che un velivolo giungesse così vicino — la gente della Biblioteca stava più attenta a cancellare le orme nella neve che avrebbero potuto guidare fino all’ingresso delle caverne un occhio indiscreto nel cielo. Sutty e Unroy avevano terminato il compito abbastanza piacevole di spargere tutt’intorno la neve leggera e asciutta con delle scope, e stavano riposando un attimo, sedute su dei massi accanto alla stalla dei minule.
«Cos’è la storia?» chiese d’un tratto Unroy, usando la parola hainiana. «Chi sono gli storici? Sei una storica, tu?»
«Gli hainiani dicono di sì» rispose Sutty, e iniziarono una lunga e intensa discussione linguistico-filosofica per cercare di stabilire se storia e Narrazione potessero essere intese come la stessa cosa, o cose simili, o del tutto dissimili; una discussione su cosa facessero gli storici, su cosa facessero i maz, e perché.
«Penso che storia e Narrazione siano la stessa cosa» disse infine Unroy. «Sono modi di trattenere e conservare cose sacre.»
«Cos’è la sacralità?»
«Ciò che è vero è sacro. Ciò che è costato sofferenza. Ciò che è bello.»
«Dunque la Narrazione cerca di trovare negli eventi la verità… o la sofferenza, o la bellezza?»
«Non c’è bisogno di cercare» replicò Unroy. «La sacralità esiste. Nella verità, nella sofferenza, nella bellezza. Quindi la narrazione di queste cose è sacra.»
Il suo compagno, Kigno, era in un campo di prigionia di Doy. Era stato arrestato e condannato per avere insegnato religione ateistica e dogmi antiscientifici reazionari. Unroy sapeva dov’era, in una enorme acciaieria che utilizzava come personale i prigionieri, ma non era possibile alcuna comunicazione.
«Ci sono centinaia di migliaia di persone nei centri di riabilitazione» spiegò Unroy a Sutty. «L’Azienda si procura così manodopera a buon mercato.»
«Che ne farete del vostro prigioniero?»
Unroy scosse la testa. «Vorrei che fosse rimasto ucciso come l’altro» disse. «È un problema che non sappiamo come risolvere.»
Sutty concordò, in un silenzio amaro.
Il Controllore era curato bene; parecchi maz erano guaritori di professione. L’avevano messo in una piccola tenda da solo, e lo tenevano al caldo, lo nutrivano. La sua tenda era in una grande caverna, tra sette o otto tende occupate da guide o stallieri dei minule. C’era sempre qualcuno là con occhi e orecchi aperti, come dicevano loro. In ogni caso, non c’era pericolo che tentasse di fuggire finché la distorsione alla schiena e le serie lesioni al ginocchio non fossero migliorate.
Odiedin lo visitava ogni giorno. Sutty non si era ancora decisa a farlo.
«Si chiama Yara» la informò Odiedin.
«Si chiama Controllore» replicò lei, sprezzante.
«Non più» fece Odiedin, sarcastico. «Ci ha seguiti senza essere autorizzato. Se torna a Dovza City, lo manderanno in un centro di riabilitazione.»
«Un campo di lavoro forzato? Perché?»
«I funzionari non devono trasgredire gli ordini o prendere iniziative non autorizzate.»
«Non era un elicottero dell’Azienda?»
Odiedin scosse la testa. «Era di proprietà del pilota. Lo usava per portare provviste agli scalatori nella Catena Meridionale. Yara l’ha noleggiato. Per cercarci.»
«Che strano» commentò Sutty. «Seguiva me, allora?»
«Gli servivi come guida.»
«Lo temevo.»
«Io no.» Odiedin sospirò. «L’Azienda è così grande, e il suo apparato così goffo, che noi miseri provinciali quassù non siamo degni di essere presi in considerazione. Sgusciamo tra le maglie della rete. O l’abbiamo fatto per tanti anni. Quindi, non mi preoccupavo. Ma lui non era la polizia dell’Azienda. Era un uomo solo. Un fanatico.»
«Fanatico?» Sutty rise. «Crede agli slogan? Ama l’Azienda?»
«Ci odia. Odia i maz, la Narrazione. Ti teme.»
«Come straniera?»
«Pensa che convincerai l’Ekumene a schierarsi coi maz contro l’Azienda.»
«Cosa glielo fa pensare?»
«Non lo so. È un uomo strano. Credo che dovresti parlare con lui.»
«A che scopo?»
«Per sentire quello che ha da dire» rispose Odiedin.
Sutty rimandò, ma la coscienza non le dava tregua. Odiedin non era un dotto, non era un saggio come quei maz delle pianure, però aveva mente limpida e cuore sereno. Nel lungo viaggio, Sutty aveva imparato a fidarsi completamente di lui, e quando l’aveva visto piangere sui libri della Biblioteca si era accorta di amarlo. Voleva fare quello che Odiedin le aveva chiesto, anche se si trattava di sentire quello che aveva da dire il Controllore.