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«Per loro, questo posto è sacro» fece Sutty.

Da dove veniva quella parola? Lei non la usava. Perché lo stava tormentando? Sbagliato, sbagliato.

«Ascolta, Yara… ti chiami così, vero? Non lasciarti condizionare da vecchie superstizioni putride. Non credo che Madre Silong presti la benché minima attenzione a noi.»

Lui scosse il capo, muto. Forse si era detto anche quello.

Sutty non sapeva cos’altro dirgli. Dopo un lungo silenzio, il Controllore parlò.

«Merito la punizione» disse.

Quelle parole la scossero.

«Be’, l’hai avuta» fece infine Sutty. «E forse sarai punito ancora, in un modo o nell’altro. Come dobbiamo regolarci con te? Dobbiamo deciderlo. L’estate volge al termine. Parlano di partire tra qualche settimana. Fino ad allora, tanto vale che tu la prenda con calma. E ti rimetta in piedi. Perché, in qualsiasi posto tu vada, una volta uscito di qui, non credo che volerai sul vento del Sud.»

Lui la guardò di nuovo. Era visibilmente spaventato. Da quello che lei aveva detto? Dalla colpa, quale che fosse, che l’aveva spinto a dire: «Merito la punizione»? Oppure perché trovarsi inerme tra i nemici era una cosa che spaventava?

Annuì rigido, un unico breve cenno da cui traspariva sofferenza, e disse: «Il mio ginocchio presto sarà guarito».

Mentre riattraversava le caverne, Sutty pensò che, per quanto sembrasse grottesco, c’era qualcosa di fanciullesco in quell’uomo, qualcosa di semplice e puro. Poi si corresse: di semplicistico, non di semplice… e puro, che diavolo significava? Santo, pio, e via dicendo? (Non fare la Madre Teresa con me, ragazzina, le sussurrò nella mente zio Hurree.) Il Controllore era uno sprovveduto e un ingenuo, col suo gergo tipo "nemico dello stato". Un individuo miope che aveva in testa una cosa sola. Un fanatico, come aveva detto Odiedin. Anzi, un terrorista. Un vero e proprio terrorista.

Parlare con lui le aveva guastato l’umore. Si pentì di avergli parlato, di averlo visto. L’ansia e la frustrazione la resero irritabile con gli amici.

Kieri, con cui divideva ancora la tenda, anche se ultimamente non il sacco a pelo, era allegra e affettuosa, ma la sua sicurezza era inaccessibile. Kieri sapeva tutto quello che voleva sapere. Dalla Narrazione voleva solo storie e superstizione. Non le interessava imparare dai maz e non andava mai nelle caverne dei libri. Si era unita al gruppo per puro spirito d’avventura.

Akidan, d’altro canto, era in uno stato di venerazione mista a libidine. La guida Shui era tornata al villaggio poco dopo il loro arrivo alle caverne, lasciandolo solo nella tenda, e il ragazzo si era subito innamorato di maz Unroy Kigno. Le stava appiccicato come un piccolo di minule alla madre, la guardava con occhi adoranti, imparava a memoria ogni sua parola. Per sua sfortuna, le uniche persone del vecchio sistema ad avere una vita sessuale rigorosamente regolata erano i maz. Erano monogami per tutta la vita, fossero o meno con i compagni. I maz che Sutty aveva conosciuto, per quel che poteva vedere, osservavano tutti tale regola. E Akidan, un giovane mite, non aveva in fondo nessuna intenzione di metterla in discussione o alla prova. Era soltanto innamorato cotto, del tutto cotto, una povera vittima dell’agiolatria di origine ormonale.

Unroy era dispiaciuta per lui, ma non glielo lasciava capire. Lo scoraggiava brusca, facendo leva sulla sua autodisciplina, sulla sua erudizione, sul suo desiderio di diventare un maz. Quando l’infatuazione del giovane si era manifestata con troppa evidenza, lei l’aveva redarguito, citando un passo noto del Pergolato: "I due che sono uno non sono due, ma l’uno che è due è uno…". Sembrava un rimprovero piuttosto sottile, ma Akidan era impallidito di vergogna ed era filato via. Da quel momento, era stato infelice. Kieri gli parlava spesso e sembrava incline a consolarlo. Sutty si augurava che lo facesse. Non voleva il fermento e l’influsso di emozioni adolescenziali; voleva pareri da adulto, certezze mature. Sentiva che doveva andare avanti ed era in un vicolo cieco; doveva decidere e non sapeva che decisione prendere.

Il Grembo del Silong era totalmente isolato dal resto del mondo. Nessuna radio né trasmettitori d’altro tipo venivano mai portati lì, per paura che i segnali fossero intercettati. Le notizie potevano arrivare solo dai sentieri di nordest o seguendo la via lunga e impervia di sudest, percorsa dal gruppo di Sutty. A estate così avanzata, era molto difficile che arrivasse qualcun altro; anzi, come aveva detto al Controllore, la gente lì stava già parlando di partire.

Ascoltò i loro piani. Era loro abitudine partire in piccoli gruppi e prendere strade diverse quando il cammino divergeva. Non appena era possibile farlo, si univano alle piccole carovane degli abitanti dei villaggi estivi che scendevano nelle colline pedemontane. In questo modo il pellegrinaggio, il percorso che conduceva alle caverne, era rimasto segreto per quarant’anni.

Era già troppo tardi, le spiegò Odiedin, per tornare indietro lungo il percorso fatto all’andata dal loro gruppo, quello di sudest. Le guide dell’ultimo villaggio estivo erano rientrate quasi subito, e anche così prevedevano di trovare neve e bufere sullo Zubuam. Loro sarebbero dovuti scendere in Amareza, la regione collinare a nordest del Silong, aggirando poi l’estremità della Catena delle Sorgenti, e risalendo infine le colline verso Okzat-Ozkat. A piedi, avrebbero impiegato un paio di mesi. Odiedin pensava che avrebbero potuto farsi dare qualche passaggio dai camion nella zona collinare, anche se per farlo avrebbero dovuto separarsi, dividersi in coppie.

Sembrava tutto spaventoso e inverosimile a Sutty. Un conto era seguire le sue guide sulle montagne, seguire una via nascosta tra le nuvole fino a un luogo sacro segreto; ben altra cosa era vagare come una mendicante, fare l’autostop, anonima e indifesa, nelle vaste campagne di un mondo straniero. Si fidava di Odiedin, certo, però desiderava tantissimo mettersi in contatto con Tong Ov.

E del Controllore che ne avrebbero fatto? L’avrebbero lasciato libero, perché corresse a raccontare ai dipartimenti e ai ministeri di avere scoperto l’ultimo grande nascondiglio di libri proibiti? Anche se era caduto in disgrazia senza la minima possibilità di appello, prima di spedirlo in qualche salina i suoi capi avrebbero di sicuro ascoltato quello che aveva da riferire.

E lei cos’avrebbe detto a Tong Ov, se e quando fosse riuscita a parlargli ancora? L’aveva mandata in cerca della storia di Aka, del passato perduto e bandito di quel mondo, della sua vera essenza, e lei l’aveva trovato. Ma poi?

Quello che i maz volevano da lei era chiaro e urgente: doveva salvare il loro tesoro. Era l’unica cosa chiara nel tumulto oscuro dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti dopo l’incontro con il Controllore.

Quello che lei voleva, che avrebbe desiderato, se fosse stato possibile, era rimanere lì. Vivere nelle caverne dell’essere, leggere, sentire la Narrazione, lì, dov’era ancora completa o quasi completa, dov’era ancora un’unica storia ininterrotta. Vivere nella foresta di parole. Ascoltare. Ecco a cos’era adatta, cosa desiderava ardentemente, e non poteva fare.

Come lo desideravano i maz, senza poterlo fare.

«Siamo stati stupidi, yoz Sutty» disse Goiri Engnake, una maz della grande città di Kangnegne al centro del continente, una studiosa di filosofia che aveva scontato quattordici anni di campo di lavoro agricolo per aver diffuso ideologia reazionaria. Era una donna sfinita, dura, brusca. «Stupidi, a portare tutto quassù. Avremmo dovuto lasciare tutto dov’era. Lasciare i libri a chi li aveva, e fare delle copie. Impiegare il nostro tempo facendo delle copie, invece di raccogliere tutto in un posto, dove possono distruggerlo in una sola volta. Ma come vedi siamo all’antica. Abbiamo pensato a quanto tempo è necessario per fare delle copie, a quanto è pericoloso cercare di stampare. Non abbiamo considerato le macchine che l’Azienda ha cominciato a produrre, i sistemi per copiare le cose in un attimo, per mettere intere biblioteche in un computer. Adesso che il nostro tesoro è qui, non possiamo più usare quelle tecnologie. Non possiamo portare quassù un computer, e anche se potessimo, come lo alimenteremmo? E quanto tempo occorrerebbe per inserire tutto questo materiale in un computer?»