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«Perché?» chiese lui. La sua voce era fredda, come la ricordava Sutty.

«L’odio divora chi odia» rispose Sutty, citando un passo familiare della Narrazione.

Il Controllore sedeva impassibile, teso come sempre. Lei, invece, cominciò a rilassarsi. La sua confessione aveva dissolto non solo il senso di vergogna ma pure l’oppressione piena di risentimento che provava davanti a quell’individuo. Assunse con le gambe una posizione più comoda, un semiloto, drizzò la schiena. Adesso poteva guardarlo bene, invece di lanciargli occhiate furtive. Osservò per un po’ quella faccia rigida. Il Controllore non voleva o non poteva dire nulla, ma lei sì.

«Vogliono che parli con te» disse. «Vogliono che ti racconti com’è la vita sulla Terra. Le cose brutte e dolorose che troverete alla fine della Marcia verso le Stelle. Così forse comincerai a porti la domanda fatidica: so quello che sto facendo? Ma a te forse non interessa… E sono anche curiosa di sapere com’è la vita di uno come te. Cos’è che fa di un uomo un Controllore. Vuoi dirmelo? Perché vivevi con i nonni? Perché hai imparato a leggere la vecchia scrittura? Sei sulla quarantina, mi pare. Era già proibita quando eri bambino, no?»

Lui annuì. Sutty aveva posato il libro. Il Controllore lo prese, sembrò studiare i tratti armoniosi della calligrafia del titolo sulla copertina: FRUTTI GEMME DELL’ALBERO DEL SAPERE.

«Dimmi» lo sollecitò Sutty. «Dove sei nato?»

«A Bolov Yeda. Sulla costa occidentale.»

«E ti hanno chiamato Yara… "forte"…»

Lui scosse la testa. «Mi hanno chiamato Azyaru.»

Azya Aru. Sutty aveva letto di loro proprio un paio di giorni prima, in una Storia delle Terre Occidentali che Unroy le aveva mostrato durante una delle loro scorrerie nella Biblioteca. Una coppia di maz di due secoli addietro, Azya e Aru erano stati i principali fondatori e apostoli della Narrazione in Dovza. I primi maz tirannici. Eroi della cultura dovzana, fino alla secolarizzazione. Sotto l’Azienda, erano diventati senza dubbio personaggi malvagi, da dimenticare, cancellare.

«I tuoi genitori erano maz, allora?»

«I miei nonni.» Il Controllore teneva il libro come se fosse un talismano. «La prima cosa che ricordo è mio nonno che mi insegna a scrivere la parola "albero".» Il suo dito sulla copertina del libro tracciò i due tratti dell’ideogramma. «Eravamo seduti sulla veranda, all’ombra, da là si vedeva il mare. I pescherecci stavano rientrando. Bolov Yeda è in collina, sopra una baia. La più grande città della costa. I miei nonni avevano una bella casa. C’era un rampicante che cresceva sul portico, fino al tetto, con un tronco grosso e fiori gialli. Ogni giorno, in casa, loro facevano la Narrazione. Di sera, andavano all’umyazu.»

Aveva usato il pronome proibito lui/lei/loro. Non se n’era accorto, rifletté Sutty. La voce del Controllore era diventata sommessa, roca, tranquilla.

«I miei genitori erano insegnanti. Insegnavano la nuova scrittura nella scuola dell’Azienda. Io l’ho imparata, ma preferivo quella vecchia. Mi interessavano la scrittura, i libri. Le cose che mi insegnavano i miei nonni. Loro pensavano che fossi destinato a diventare un maz. La nonna diceva: "Oh, Kiem, lascia che il bambino vada a giocare! ". Ma il nonno voleva che rimanessi in casa a imparare qualche altro carattere, e io volevo sempre accontentarlo. Migliorare… La nonna mi insegnava le cose parlate, le cose che i bambini imparavano della Narrazione. Ma io preferivo la scrittura. Potevo renderla bellissima. Conservarla. Le parole parlate volavano via come il vento, e bisognava sempre ripeterle per tenerle vive. Ma lo scritto rimaneva, e si poteva sempre migliorarlo.»

«Così sei andato a vivere con i nonni, a studiare con loro?»

Lui rispose con la stessa pacatezza, con quella calma quasi sognante. «Quando ero piccolo, vivevamo là tutti insieme. Poi mio padre diventò amministratore scolastico e mia madre entrò a far parte del Ministero dell’Informazione. Furono trasferiti a Tamble, e poi a Dovza City. Mia madre doveva viaggiare parecchio. Fecero carriera in fretta nell’Azienda. Erano funzionari preziosi. Molto attivi. I nonni dissero che per me sarebbe stato meglio restare da loro, mentre i miei genitori erano sempre in giro e lavoravano tanto. Così rimasi con loro.»

«E tu volevi rimanere con loro?»

«Oh, sì» rispose lui, con assoluta franchezza. «Ero felice.»

La parola sembrò echeggiargli nella mente, scuotere la tranquillità con cui stava parlando. Distolse lo sguardo, un movimento improvviso che ricordò chiaramente a Sutty l’incontro nella strada di Okzat-Ozkat, quando lui le si era rivolto rabbioso e supplichevole, dicendole: «Non tradirci!».

Rimasero seduti un po’ senza parlare. Nella Caverna dell’Albero nessun altro si muoveva o stava parlando. Silenzio profondo nel Grembo del Silong.

«Sono cresciuta in un villaggio» disse Sutty. «Con mio zio e mia zia. O meglio, prozio e prozia. Zio Hurree era magro e molto scuro di carnagione, con capelli bianchi ispidi e sopracciglia altrettanto bianche e ispide… sopracciglia terribili. Quando ero piccola, pensavo che quelle sopracciglia sprizzassero lampi ogni volta che le aggrottava. Zietta era una cuoca e un’organizzatrice fantastica. Sapeva gestire qualsiasi situazione. Ho imparato a cucinare prima di imparare a leggere. Ma lo zio mi ha insegnato, alla fine. Era stato professore all’università di Calcutta. Una grande città della mia parte della Terra. Insegnava letteratura. Avevamo cinque stanze nella casa al villaggio, ed erano tutte piene di libri, tranne la cucina. Zietta non voleva libri in cucina. Nella mia stanza ce n’erano mucchi dappertutto, lungo le pareti, sotto il letto e sotto il tavolino. Quando ho visto le caverne della Biblioteca, qui, ho pensato subito alla mia camera a casa.»

«Tuo zio insegnava nel villaggio?»

«No. Si era nascosto, là. Ci eravamo nascosti. I miei genitori si erano nascosti in un altro posto. Si cercava di non attirare l’attenzione. Era scoppiata una specie di rivoluzione. Come la vostra, qui, ma al contrario. Gente che… Ma preferisco ascoltarti invece di parlare. Raccontami cos’è successo. Hai dovuto lasciare i tuoi nonni? Quanti anni avevi?»

«Undici.»

Sutty ascoltò. Il Controllore parlò.

«Anche i miei nonni erano attivi» disse. Il tono adesso era greve, penoso, tuttavia non sembrava restio a raccontare. «Ma non come fedeli produttori-consumatori. Erano capi di una banda di attivisti reazionari clandestini. Fomentavano attività di culto e insegnavano l’antiscienza. Io non capivo. Mi portavano a riunioni organizzate da loro. Non sapevo che fossero riunioni illegali. L’umyazu era chiuso, ma loro non mi avevano detto che l’aveva chiuso la polizia. Non mi mandavano alla scuola dell’Azienda. Mi tenevano in casa e mi insegnavano solo superstizione e moralità deviante. Alla fine, mio padre si rese conto di quello che stavano facendo. Lui e mia madre si erano separati. Non mi vedeva da due anni, ma mi mandò a prendere. Venne un uomo, di notte. Sentii mia nonna parlare a voce alta, gridare quasi, rabbiosa. Non l’avevo mai sentita parlare così. Mi alzai e andai nel soggiorno. Il nonno era seduto, immobile, non mi guardò, non disse nulla. La nonna e uno sconosciuto erano vicini al tavolo, una di fronte all’altro. Guardarono me, poi l’uomo guardò lei. La nonna disse: "Va’ a vestirti, Azyaru, tuo padre vuole che tu vada da lui". Io andai a vestirmi. Quando tornai in soggiorno, erano esattamente come li aveva lasciati: il nonno sedeva come un vecchio sordo e cieco, lo sguardo fisso nel vuoto, e la nonna era in piedi con i pugni stretti sul tavolo, di fronte a quell’uomo. Io cominciai a piangere, dissi che non volevo andar via, che volevo rimanere là. Allora la nonna mi venne vicino e mi prese per le spalle, ma mi spinse, mi spinse verso l’uomo. Lui disse: "Andiamo", e la nonna disse: "Va’, Azyaru!", e io… andai con lo sconosciuto.»