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«So che secondo te è una cosa sbagliata» disse.

Dopo un’esitazione, Yara rispose: «Dato che da una unione di questo tipo non può nascere nessun bambino, il Comitato per l’Igiene Morale ha dichiarato…».

«Sì, lo so. I Padri unisti hanno dichiarato la stessa cosa. Perché dio ha creato la donna come ricettacolo del seme maschile… Ma dopo la Liberazione, non dovevamo nasconderci per paura di essere mandate in qualche campo di rinascita. Come le vostre coppie di maz che vengono mandate nei centri di riabilitazione.» Sutty lo guardò, provocatoria.

Lui non raccolse la provocazione. Accettò le sue parole, e attese, disposto ad ascoltare.

Sutty non poteva girare attorno all’argomento, né evitarlo. Doveva affrontarlo, parlandone. Doveva raccontare.

«Siamo vissute insieme due anni» riprese. La voce le uscì così bassa che Yara si piegò un po’ verso di lei per sentire. «Lei era molto più graziosa di me. E molto più intelligente. E più dolce. E rideva. A volte, rideva nel sonno. Si chiamava Pao.»

Con il nome arrivarono le lacrime, ma le tenne a freno.

«Io avevo due anni più di lei, ed ero avanti di un anno nello studio. Per stare con lei, rimasi un altro anno a Vancouver. Poi dovetti partire e iniziare l’addestramento al Centro Ekumenico, in Cile. Un paese molto lontano, a sud. Pao mi avrebbe raggiunta una volta ottenuta la laurea. Avremmo studiato assieme e formato una squadra, una squadra di Osservatori. Saremmo andate insieme su nuovi mondi. Piangemmo parecchio quando dovetti partire per il Cile, ma la separazione fu meno dolorosa di quello che pensavamo. Non fu affatto dolorosa, anzi, perché potevamo parlare sempre al telefono e in rete, e sapevamo che ci saremmo riviste in inverno, e poi, dopo la primavera, lei mi avrebbe raggiunta e saremmo rimaste insieme per sempre. Eravamo insieme. Eravamo come maz. Eravamo due che non erano due, ma uno. In fondo era un piacere, una gioia, sentire la sua mancanza, perché lei per me esisteva comunque, e potevo sentire la sua mancanza. Lei mi disse la stessa cosa, disse che quando fossi tornata a Vancouver in inverno le sarebbe mancato il fatto di sentire la mia mancanza…»

Sutty aveva cominciato a piangere, ma erano lacrime facili, non amare. Dovette solo interrompersi per tirar su col naso e asciugarsi gli occhi.

«Così tornai a Vancouver per le vacanze. In Cile era estate, ma a Vancouver, inverno. E noi… ci abbracciammo e ci baciammo e preparammo il pranzo. E andammo a trovare i miei genitori e quelli di Pao, e a passeggiare nel parco, dove c’erano grandi alberi, vecchi alberi. Pioveva. Piove parecchio, là. Mi piace la pioggia.»

Le lacrime erano cessate.

«Pao andò in biblioteca, in centro, a cercare qualcosa per gli esami che avrebbe dato dopo le vacanze. Volevo andare con lei, ma avevo il raffreddore, così lei mi disse di rimanere in casa per non bagnarmi… e poi io avevo voglia di poltrire, così restai nel nostro appartamento, e mi addormentai.

«Ci fu un attacco di terroristi della Guerra Santa. Erano un gruppo chiamato Purificatori della Terra. Credevano che Dalzul e l’Ekumene fossero servi dell’anti-dio e andassero eliminati. Molti di loro aveva fatto parte delle forze armate uniste. Disponevano di alcune delle armi accumulate dai Padri unisti e le usavano contro le scuole.»

Sutty udì la propria voce, spenta come poco prima quella di Yara.

«Usarono degli aerei telecomandati, bombardieri senza equipaggio. Da centinaia di chilometri di distanza, dal North Dakota e dal South Dakota. Stando nascosti sottoterra e premendo un pulsante, mandarono i bombardieri. Fecero saltare in aria l’università, la biblioteca, interi isolati del centro, migliaia di persone rimasero uccise. Cose del genere accadevano di continuo nelle Guerre Sante. Lei era solo una persona fra tante. Non era nessuno, non contava nulla, era solo una persona. Io ero a casa. Sentii il rumore delle esplosioni…»

La gola le faceva male, ma le faceva sempre male. Le avrebbe fatto sempre male.

Per un po’, non riuscì a dire altro.

Yara chiese sommesso: «I tuoi genitori rimasero uccisi?».

La domanda la commosse. La rianimò, consentendole di rispondere. Disse: «No. Rimasero illesi. Mi trasferii da loro. Poi tornai in Cile».

Restarono seduti in silenzio. Nella montagna, nelle caverne piene di essere. Sutty era stanca, esausta. Dalla faccia e dalle mani di Yara, capì che anche lui era stanco, e che soffriva. Il silenzio che li accomunava dopo le parole era calmo, una benedizione meritata.

Trascorso parecchio tempo, Sutty udì delle persone che parlavano, e si scosse dal silenzio.

Sentì la voce di Odiedin, e dopo alcuni istanti, fuori dalla tenda, il maz chiamò: «Yara?».

«Entra» lo invitò Yara. Sutty scostò il lembo dell’apertura.

«Ah» fece Odiedin. Nel debole bagliore della lanterna, la sua faccia scura dagli zigomi marcati che sbirciava all’interno, guardandoli, era una simpatica maschera da folletto.

«Abbiamo parlato» disse Sutty. Uscì dalla tenda e si fermò accanto a Odiedin, stiracchiandosi.

«Sono venuto per i tuoi esercizi fisici» disse Odiedin a Yara, inginocchiandosi nell’apertura.

«Si rimetterà in piedi presto?» chiese Sutty al maz.

«Usare le stampelle è doloroso, a causa delle lesioni alla schiena» spiegò Odiedin. «Alcuni muscoli sono ancora strappati. Continuiamo la cura.»

Entrò nella tenda, carponi.

Sutty fece per allontanarsi, poi si voltò e guardò dentro. Andarsene senza una parola, dopo una conversazione come quella, era sbagliato.

«Tornerò domani, Yara» disse. Lui borbottò qualcosa sottovoce. Sutty si drizzò, e guardò la caverna nel bagliore fioco che proveniva dalle altre tende. Non riuscì a vedere l’intaglio dell’Albero nella parete in fondo, solo un paio di minuscole gemme che scintillavano nel fogliame.

La Caverna dell’Albero aveva un’uscita che portava all’esterno, non lontano dalla tenda di Yara. Imboccando l’uscita, si attraversava una caverna più piccola e si arrivava a un breve passaggio che terminava con un arco così basso che bisognava strisciare per uscire alla luce del sole.

Sutty sbucò dal cunicolo e si alzò in piedi. Aveva tirato fuori gli occhiali scuri, aspettandosi di rimanere abbagliata, ma il sole, nascosto tutto il pomeriggio dalla grande mole del Silong, stava tramontando o era tramontato. La luce era delicata, con una lieve sfumatura viola. Nelle ultime ore era caduta un po’ di neve. L’ampio semicerchio della conca, come un palcoscenico visto dal fondale, si stendeva pallido e senza una sola impronta fino al margine esterno. L’aria era immota, lì, sotto la parete della montagna, ma là in fondo, sull’orlo, a un centinaio di metri, il vento sollevava e lasciava cadere la neve fine e asciutta, formando turbini e mulinelli impalpabili, in perenne movimento.

Sutty era stata sull’orlo solo una volta. Il precipizio sottostante era uno strapiombo di almeno un chilometro, un abisso. Le aveva fatto girare la testa, e mentre era là, il vento l’aveva investita con raffiche insidiose.

Spinse lo sguardo oltre la lieve danza incessante dei turbini di neve, attraverso il vuoto dell’aria crepuscolare, fino allo Zubuam. Le pendici del Tonante erano indistinte, pallide e remote, di sera. Rimase a lungo a osservare la luce che si spegneva a poco a poco.

Andava a parlare con Yara quasi tutti i pomeriggi, dopo avere esplorato un altro settore della Biblioteca e avere lavorato con i maz che la stavano catalogando. Non tornarono mai apertamente su quello che si erano detti delle rispettive vite, anche se era alla base di tutto ciò che dicevano, una base lugubre.

Una volta, Sutty gli chiese se sapesse perché l’Azienda aveva accolto la richiesta di Tong Ov, permettendo a un’extraplanetaria di uscire dall’ambiente controllato di Dovza City, dove l’accesso alle informazioni importanti non era consentito. «Ero un esperimento?» chiese. «O un’esca?»

Non fu facile per Yara superare le abitudini della sua vita di funzionario, della vita di tutti i burocrati: proteggere e accrescere il proprio potere nascondendo informazioni, lasciando che il silenzio sottintendesse che era in possesso di informazioni anche quando non era vero. Si era attenuto a quella regola per tutta la sua vita adulta, e probabilmente adesso non sarebbe riuscito a staccarsene se da bambino non fosse vissuto nella Narrazione. Comunque, rispondere gli costò uno sforzo visibile. Sutty osservò la lotta interiore, e provò un senso di colpa. Giacendo in quella tenda, prigioniero delle sue ferite, dipendente dai suoi nemici, Yara non disponeva che dell’arma del silenzio. Per rinunciarvi e parlare, bisognava essere valorosi. Cedere quel poco che si aveva in mano.