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Sebbene su Aka le tecnologie e le conquiste dei mondi ekumenici fossero considerate fulgidi modelli, di esempio in ogni campo, i quattro visitatori dell’Ekumene erano tenuti, come diceva Tong, sotto una campana di vetro. Di tanto in tanto venivano mostrati al pubblico e nei quasiveri, figure sorridenti sedute a un banchetto dell’Azienda o accanto al capo di qualche dicastero che teneva un discorso; ma non erano invitati a parlare, loro. Solo a sorridere. Forse i ministri non si fidavano, temevano che gli ospiti dicessero qualcosa di sbagliato. Forse i ministri li consideravano esempi piuttosto scialbi e insipidi delle civiltà superiori che Aka si stava sforzando tanto di emulare. La maggior parte delle civiltà, forse, sembravano più scintillanti se osservate in generale e da parecchi anni luce di distanza.

Aveva conosciuto molti akani e li aveva trovati quasi tutti simpatici, tuttavia dopo metà anno sul pianeta Sutty in pratica non aveva mai fatto una conversazione che si potesse davvero definire tale con nessuno di loro. Non aveva visto nulla della vita privata akana, eccetto gli austeri pranzi dei burocrati e dei funzionari aziendali d’alto livello. Nessuna prospettiva, neppure remota, di amicizia personale si era mai profilata all’orizzonte. Senza dubbio, alle persone che incontrava era stato consigliato di parlare con lei solo lo stretto necessario, in modo che l’Azienda potesse mantenere il pieno controllo delle informazioni che lei riceveva. Ma nemmeno con le persone che vedeva spesso si era instaurato un rapporto di intimità. Sutty non avvertiva questo distacco come pregiudizio, xenofobia; gli akani erano del tutto indifferenti nei confronti dell’appartenenza straniera. Il fatto era che avevano tutti troppo da fare, ed erano tutti burocrati. La conversazione seguiva un copione prestabilito. Ai banchetti, le persone parlavano di affari, di sport, di tecnologia. Quando aspettavano in fila o in lavanderia, parlavano di sport e degli ultimi quasiveri. Evitavano gli argomenti personali e, in pubblico, ripetevano quello che diceva l’Azienda su tutte le questioni attinenti alla politica e all’opinione pubblica, arrivando a contraddire Sutty quando la sua descrizione della Terra non concordava con quanto era stato insegnato loro a proposito di quello splendido mondo progredito e ricco di risorse.

Sul traghetto, invece, la gente parlava. Parlava a livello personale, intimamente, esaurientemente. Si appoggiava al parapetto e parlava, si sedeva sul ponte a parlare, si fermava a tavola con un bicchiere di vino e parlava.

Una parola o un sorriso di Sutty erano sufficienti perché fosse ammessa alla conversazione. E lei si rese conto, un po’ alla volta, dato che la cosa la sorprese non poco, che ignoravano che lei era straniera.

Tutti sapevano che c’erano degli Osservatori dell’Ekumene su Aka; li avevano visti nei quasiveri, quattro figure così distaccate e insignificanti tra i ministri e i dirigenti, stranieri impettiti in mezzo ai palloni gonfiati; non si aspettavano di incontrarne uno tra la gente comune.

Sutty era convinta non solo che sarebbe stata riconosciuta, ma anche che l’avrebbero isolata e tenuta a distanza in tutti gli spostamenti. Però non le avevano offerto una guida, e lei non aveva notato alcun sorvegliante che la tenesse d’occhio. A quanto pareva, l’Azienda aveva deciso di lasciarla viaggiare proprio da sola. In città era stata sola, ma sotto la campana di vetro, una bolla di isolamento. La bolla era scoppiata. E lei era fuori.

Era un po’ intimorita, quando ci pensava, ma in fin dei conti non ci pensava tanto, perché era troppo piacevole. Era accettata… una dei passeggeri, una della folla. Non doveva spiegare, non doveva eludere le domande, perché nessuno le chiedeva nulla. Parlava un dovzano quasi privo d’accento, lo parlava senza dubbio con un accento meno marcato rispetto a molti akani non originari della regione di Dovza. Vedendo i suoi tratti somatici — bassa, esile, pelle scura — la gente immaginava che lei fosse della parte orientale del continente. «Sei dell’Est, vero?» dicevano. «Mia cugina Muniti ha sposato un uomo di Turu…» E poi continuavano a parlare di sé.

Sutty li sentì parlare di loro, dei loro cugini, delle loro famiglie, delle loro occupazioni, delle loro opinioni, delle loro case, delle loro ernie. Chi aveva animali da compagnia viaggiava in battello, scoprì coccolando il micino affettuoso di una donna. Chi detestava o aveva paura di volare, prendeva il battello, le spiegò in modo dettagliato un vecchio signore ciarliero. Le persone che non avevano fretta sceglievano il battello e chiacchieravano, scambiandosi le rispettive storie. A Sutty ne raccontavano più che alla maggior parte degli altri passeggeri, perché lei ascoltava senza interrompere, se non per dire cose come: "Davvero? E poi cos’è successo? Meraviglioso! Oh, terribile!". Ascoltava avida, instancabile. Quei racconti scialbi e frammentari di vite comuni non potevano annoiarla. Contenevano tutto quello che le era mancato a Dovza City, tutto quello che veniva tralasciato dalla letteratura ufficiale, dalla propaganda eroica. Se avesse dovuto scegliere tra eroi ed ernie, Sutty non avrebbe avuto la minima esitazione.

Mentre il battello continuava a risalire il fiume, spingendosi sempre più nell’entroterra, cominciarono a salire a bordo passeggeri di tipo diverso. Per la gente di campagna, il battello fluviale era il mezzo più semplice ed economico per spostarsi da una cittadina all’altra: s’imbarcava qui e scendeva là. Adesso le città erano più piccole, senza grandi edifici. Al settimo giorno, i passeggeri non salivano a bordo con animali da compagnia e bagagli, ma con cesti contenenti pollame e capre al guinzaglio.

Non erano esattamente capre, né caprioli, né mucche, né creature terrestri d’altro genere, erano eberdin, però belavano, e avevano pelo serico: nell’ecologia mentale di Sutty occupavano la nicchia della capra. Venivano allevati per il latte, la carne, e il pelo serico. In passato, stando alla pagina colorata di un libro illustrato recuperata dalla trasmissione sabotata, gli eberdin trainavano carri e venivano usati addirittura come cavalcature. Sutty ricordava le bandiere rosse e azzurre sul carro, e la scritta sotto l’immagine: IN VIAGGIO VERSO LA MONTAGNA D’ORO. Si chiese se si fosse trattato di una storia fantastica per bambini o di un’altra razza di eberdin. Nessuno poteva cavalcare le bestiole che vedeva, perché arrivavano sì e no al ginocchio. All’ottavo giorno, salivano a bordo a greggi interi. Il ponte di poppa pullulava di eberdin.

La gente di città con gli animali da compagnia e i viaggiatori che avevano paura di volare erano tutti sbarcati di buon’ora quella mattina a Eltli, una città da cui partiva una linea ferroviaria che collegava con le località di soggiorno della Catena delle Sorgenti Meridionali. Vicino a Eltli, l’Ereha attraversava tre chiuse, una molto alta. Oltre le chiuse, il fiume cambiava: diventava più impetuoso, più stretto, più rapido; le sue acque non erano più di un blu torbido venato di marrone, ma di un etereo verdazzurro.

A Eltli terminarono anche le lunghe conversazioni. La gente di campagna ora a bordo del battello non era ostile, ma schiva con gli estranei, e parlava perlopiù con i conoscenti, in dialetto. Sutty accolse volentieri la ritrovata solitudine, che le consentiva di osservare.