A sinistra, mentre il fiume piegava in direzione nord, si susseguivano svettanti picchi montani, roccia nera, ghiacciai candidi. Di fronte al battello, a monte, non si vedeva alcuna vetta, nulla di sensazionale, il terreno saliva solo lentamente, continuava a salire a poco a poco. E il Traghetto Otto, ora pieno di belati e di strida rauche, e di voci sommesse e intermittenti di campagnoli, e di odori di letame e di pane fritto e di pesce e di melone, procedeva lento, coi motori silenziosi impegnati in uno sforzo notevole per vincere la forte corrente, avanzando tra ampie sponde rocciose e pianure senz’alberi coperte di erba, un’erba sottile, sbiadita, piumosa. Scrosci di pioggia si riversarono sul terreno, cadendo da grandi nubi che si muovevano veloci, poi la pioggia cessò, lasciando il posto al sole, all’aria tersa, alla fragranza di terra. La notte fu silenziosa, fredda, stellata. Sutty rimase alzata fino a tardi e si svegliò presto. Uscì in coperta. A est il cielo si stava rischiarando. Oltre la distesa in ombra delle pianure occidentali, l’alba accese a uno a uno, come fiammiferi, i picchi lontani.
Il battello si fermò in un punto dove non c’era nessuna cittadina, nessun villaggio, un luogo che pareva disabitato. Una donna in casacca di vello e cappello di feltro spinse il proprio gregge sulla passerella, gli animali scesero a terra correndo e lei li seguì di corsa, lanciando imprecazioni alle bestie e rauchi saluti agli amici rimasti a bordo. Dal parapetto di poppa, Sutty osservò il gregge per chilometri e chilometri, una macchia sbiadita sempre più piccola sulla piana grigiodorata. Tutto il nono giorno passò in un’estasi di luce. Il battello procedeva adagio. Il fiume, adesso limpido come il cielo, scorreva così silenzioso che il battello sembrava galleggiare a mezz’aria, sospeso tra due cieli. Tutt’intorno a loro, distese di roccia e di erba sbiadita, spazi vaghi. Le montagne erano scomparse, nascoste dal grande rigonfiamento del terreno in salita. Terra, cielo e fiume si fondevano.
Quella sera, mentre era di nuovo accanto al parapetto, Sutty pensò: "Questo viaggio è più lungo di quello che ho fatto dalla Terra ad Aka".
E pensò a Tong Ov, che avrebbe potuto compiere quel viaggio di persona e invece aveva affidato l’incarico a lei. Si chiese come ringraziarlo. Osservando, descrivendo, registrando, sì. Ma non poteva registrare la propria felicità. La parola stessa distruggeva il sentimento.
Pensò: "Pao dovrebbe essere qui. Con me. Pao sarebbe venuta. Saremmo state felici".
L’aria si oscurava, l’acqua tratteneva la luce.
C’era un’altra persona sul ponte. Era l’unico altro passeggero imbarcatosi nella capitale, un uomo taciturno sulla quarantina, un funzionario dell’Azienda in blu e marrone chiaro. Le uniformi erano onnipresenti, su Aka. Gli scolari portavano casacche e pantaloncini scarlatti: masse e file e puntini rosso vivo saltellanti in tutte le strade delle città, uno spettacolo sorprendente e allegro. Gli studenti universitari indossavano divise verdi e ruggine. Il blu e il marrone chiaro erano i colori del Dipartimento Socioculturale, che comprendeva il Ministero Centrale della Poesia e dell’Arte e il Ministero Mondiale dell’Informazione. A Sutty il blu e il marrone chiaro erano molto familiari. I poeti sfoggiavano quei colori, i poeti ufficiali almeno, e anche i produttori di nastri e quasiveri, e i bibliotecari, e i burocrati di sezioni del dipartimento con cui Sutty aveva meno dimestichezza, come l’Ufficio della Purezza Etica. Gli emblemi sulla giacca di quell’uomo indicavano che era un Controllore, un grado piuttosto elevato della gerarchia. Quando si era imbarcata, immaginando di trovare a bordo qualche tipo di presenza o vigilanza ufficiale, qualche sorvegliante che seguisse il suo viaggio, si era aspettata che quell’individuo mostrasse interesse per lei o desse segno di tenerla d’occhio. Non aveva notato nulla del genere, invece. Dal suo comportamento non si capiva affatto se sapeva chi era lei. Era sempre stato taciturno e distaccato, consumava i pasti al tavolo del comandante, comunicava solo col proprio noter, ed evitava i gruppi di conversatori ai quali Sutty si univa sempre.
Ora l’uomo si accostò al parapetto, fermandosi non lontano da lei. Sutty gli rivolse un cenno con la testa e lo ignorò, perché le aveva sempre dato l’impressione di voler essere lasciato in pace.
Ma lui parlò, rompendo il silenzio profondo del grande paesaggio crepuscolare, dove solo l’acqua, con un mormorio sommesso e tenace, manifestava la propria resistenza alla prua e alle fiancate del battello. «Una regione desolata» disse il Controllore.
La sua voce svegliò un giovane eberdin legato a un montante lì accanto. L’animale belò sommessamente e scosse la testa.
«Sterile» proseguì l’uomo. «Arretrata. Ti interessano gli occhi di amanti?»
Il piccolo eberdin belò ancora.
«Prego?» rispose Sutty.
«Occhi di amanti. Gemme, pietre preziose.»
«Perché le chiamano così?»
«Una fantasia primitiva. Una somiglianza immaginaria.» Per un attimo, lo sguardo dell’uomo incrociò il suo. Le rare volte che aveva pensato a lui, Sutty aveva concluso che doveva trattarsi di un tipo scialbo e tronfio, di un piccolo egocrate. La fredda intensità di quello sguardo la sorprese.
«Si trovano lungo le sponde dei torrenti, nella regione montuosa. Solo là» disse il Controllore, indicando a monte, «e solo su questo pianeta. Ma tu sei qui perché ti interessa qualcos’altro, suppongo.»
Sapeva chi era Sutty, dunque. E a giudicare dal suo atteggiamento, voleva farle capire che disapprovava il fatto che lei potesse spostarsi liberamente, da sola.
«Sono su Aka da poco tempo, e ho visto soltanto Dovza City. Ho ricevuto il permesso di visitare un po’ i dintorni.»
«Di risalire il fiume, andare nell’interno» precisò l’uomo, abbozzando una specie di sorriso tirato. Attese che lei aggiungesse qualcosa. Sutty avvertì una pressione da parte sua, un’aspettativa, come se il Controllore pensasse che lei doveva rendergli conto delle proprie azioni. Sutty si oppose a quella pressione.
L’uomo guardò le piane purpuree che si perdevano nella notte, poi l’acqua, che sembrava conservare ancora una lieve trasparenza luminosa. Disse: «Dovza è una regione di splendidi panorami. Coltivazioni rigogliose, industrie fiorenti, luoghi di soggiorno incantevoli nella Catena delle Sorgenti Meridionali. Non avendo visto nulla di quelle bellezze, perché hai deciso di visitare questo deserto?».
«Io vengo da un deserto» rispose Sutty.
Quella risposta lo fece tacere alcuni istanti.
«Sappiamo che la Terra è un mondo ricco, in continuo progresso» disse infine il Controllore, la voce cupa di disapprovazione.
«Una parte del mio mondo è fertile. Gran parte è ancora sterile. L’abbiamo maltrattato parecchio… È un mondo intero, Controllore. C’è spazio sufficiente per una notevole varietà. Proprio come qui.»
Sutty colse il tono di sfida della propria voce.
«Tuttavia tu preferisci i luoghi desolati e i mezzi di trasporto arretrati?»
Quello non era il rispetto esagerato mostratole dalla gente di Dovza City, dove la trattavano come una fragile creatura esotica che andava protetta dalla realtà. Quella era diffidenza, sfiducia. Il Controllore le stava dicendo che era sbagliato permettere agli stranieri di andarsene in giro da soli. Il primo caso di xenofobia incontrato da Sutty su Aka.
«Mi piacciono le imbarcazioni» rispose cauta, affabile. «E trovo che questa regione sia bellissima. È austera ma bellissima. Non credi?»
«No» replicò lui. Era un ordine. Non era consentito dissentire. Quella era la voce ufficiale dell’Azienda.
«Allora, come mai risali il fiume verso l’interno? Sei in cerca di occhi di amanti?» Sutty parlò in tono scherzoso, perfino un po’ civettuolo, per consentirgli, volendo, di cambiare tono e abbandonare l’atteggiamento inquisitorio.