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Sutty riuscì a scorgere delle figure indistinte, sedute qui e là a gambe incrociate sulle stuoie. Sulla panca, vicino a Iziezi, sedeva un uomo con una gamba sola. Iziezi si sistemò, posò le stampelle e alzò lo sguardo verso Sutty, che indicò il pavimento con un cenno della mano. Era entrato qualcuno e la porta si era aperta per un attimo, e in quell’istante di visibilità grigia Sutty vide che Iziezi sorrideva. Una cosa bellissima e commovente.

Sutty si sedette a gambe incrociate sulla stuoia, le mani in grembo. Per parecchio tempo, non accadde nulla. Era sicuramente diverso da tutti i corsi di esercizio fisico che aveva visto, rifletté Sutty, e molto più di suo gusto. Le persone entravano in silenzio, una o due alla volta. Quando i suoi occhi si abituarono del tutto, vide che la sala era molto grande. Doveva essere stata scavata quasi interamente nel terreno. Le finestre lunghe e basse, poste dove le pareti incontravano il soffitto, erano di vetro bluastro spesso, che lasciava entrare solo una luce diffusa. Sopra le finestre, il soffitto saliva formando una cupola o una serie di volte: Sutty riusciva a scorgere solo travi scure che si ramificavano. Frenò gli occhi curiosi e si sforzò di rimanere seduta, di respirare, e di non addormentarsi.

Sfortunatamente, per lei la meditazione da seduta e il sonno tendevano sempre a convergere. Quando l’uomo che le sedeva accanto cominciò a dilatarsi e a contrarsi come gli ideogrammi sulla parete del negozio del Fecondatore, provò solo un vago interesse. Poi, assumendo col busto una postura un po’ più eretta, vide che l’uomo stava alzando le braccia tese sopra la testa fino a unire il dorso delle mani, e poi abbassava le braccia molto lentamente, seguendo il ritmo regolare del respiro. Iziezi e alcune altre persone stavano facendo la stessa cosa, più o meno allo stesso ritmo. Quei movimenti sereni, silenziosi, erano come il pulsare di una medusa in un acquario buio. Sutty si unì alla pulsazione.

Altri movimenti furono introdotti qua e là, uno alla volta, tutti movimenti delle braccia, e tutti al ritmo lento del respiro. C’erano periodi di riposo, poi la calma espansione e contrazione — tendere e rilassare, dilatare e contrarre — ricominciava, trasmettendosi da una figura indistinta all’altra. Un suono basso, bassissimo, accompagnava i movimenti, un mormorio ritmico muto, musica del respiro di cui non si distingueva la sorgente. Dall’altra parte della sala, una figura si alzò con estrema lentezza, biancastra, ondeggiando: un uomo o una donna, in piedi, stava compiendo i movimenti con le braccia, e piegava il busto in avanti o indietro o di lato. Altre due o tre persone si alzarono con la stessa flessuosità snodata, e cominciarono a protendersi, a oscillare, senza mai staccare un piede dal pavimento, simili più che mai a creature marine radicate, anemoni, una foresta di alghe, mentre il canto incessante, quasi impercettibile, pulsava come il moto ondoso, crescendo e calando…

Luce, rumore… una violenta esplosione bianca, come se il tetto fosse volato via. Delle lampade quadrate sfolgorarono, appese a volte polverose. Sutty rimase seduta, esterrefatta, mentre tutt’intorno a lei gli altri balzavano in piedi e cominciavano a saltellare, a scalciare, a piegarsi come pupazzi a molla, obbedendo a una voce aspra che gridava: «Uno! Due! Uno! Due!». Sutty si girò verso Iziezi, che sedeva sulla panca sobbalzando come una marionetta, sferrando pugni all’aria, uno, due, uno, due. Il mutilato vicino a lei scandiva il tempo a squarciagola, battendo una stampella sulla panca.

Incrociando lo sguardo di Sutty, Iziezi le fece cenno di alzarsi.

Sutty si alzò in piedi, obbediente ma disgustata. Riuscire a raggiungere uno stato di meditazione collettiva così meraviglioso, e poi distruggerlo con quegli stupidi esercizi da culturisti. Ma che razza di gente era quella?

Due donne in blu e marrone chiaro stavano scendendo la rampa a grandi passi, al seguito di un uomo in blu e marrone chiaro. Il Controllore. I suoi occhi fissarono subito Sutty.

Lei era in piedi in mezzo agli altri, tutti immobili adesso, a parte l’ansito del petto.

Nessuno parlò.

Il divieto degli appellativi servili, dei saluti, di qualsiasi espressione di accoglienza e di commiato, creava dei buchi nella struttura del processo sociale, dei vuoti colmati solo con un piccolo sforzo, una tensione ricorrente. Gli akani di città erano cresciuti con quell’artificiosità e senza dubbio non l’avvertivano, ma Sutty l’avvertiva ancora, e sembrava che l’avvertissero anche gli altri lì dentro. Il silenzio rigoroso imposto dalle tre figure sulla rampa metteva i presenti in condizione di svantaggio: non sapevano come romperlo. Alla fine, il mutilato si schiarì la voce e disse con una certa baldanza: «Stiamo facendo esercizi aerobici salutari, come prescritto nel Manuale sanitario per i produttori-consumatori dell’Azienda».

Le due donne e il Controllore si scambiarono un’occhiata annoiata, stizzita, con un’aria di "te l’avevo detto, no?". Il Controllore si rivolse a Sutty come se lì dentro non ci fosse nessun altro. «Sei venuta qui per fare ginnastica aerobica?»

«Abbiamo esercizi molto simili nel mio paese» rispose Sutty, scaricando su di lui l’indignazione e lo sgomento in una raffica di eloquenza. «Sono contentissima di avere trovato qui un gruppo con cui esercitarmi. Spesso l’esercizio fisico è più proficuo se fatto con un gruppo veramente interessato. Ò almeno, così crediamo nel mio paese, sulla Terra. E naturalmente spero di imparare nuovi esercizi da queste persone gentili che mi hanno accolta qui.»

Il Controllore non mostrò alcuna reazione se non un attimo di pausa, poi si voltò e seguì le donne in blu e marrone chiaro che risalivano la rampa. Le donne uscirono. Lui si girò e rimase appena dentro la porta, a osservare.

«Continuate!» gridò il mutilato. «Uno! Due! Uno! Due!» Tutti scalciarono e tirarono pugni e saltarono per i cinque o dieci minuti successivi. All’inizio, la furia di Sutty era autentica, poi sbollì, grazie a quegli stupidi esercizi, e avrebbe voluto ridere, ridere per liberarsi dello shock con una risata.

Spinse sulla rampa la carrozzella di Iziezi, trovò le proprie scarpe nella fila di scarpe. Il Controllore era ancora là. Lei gli sorrìse. «Dovresti unirti a noi» gli disse.

Lo sguardo del Controllore era impersonale, di valutazione, non denotava alcuna reazione. L’Azienda la stava esaminando.

Sutty si accorse di mutare espressione, che i propri occhi lo squadravano con un misto di sdegno e di incredulità, come se vedessero qualcosa di insignificante, grossolano, un mostriciattolo. Sbagliato! Sbagliato! Ma l’aveva fatto. Gli passò accanto e uscì nell’aria fredda della sera.

Tenne stretto lo schienale della carrozzella per aiutare Iziezi a zigzagare tra un sobbalzo e l’altro lungo la discesa, e per non pensare all’assurdo impeto di odio che il Controllore aveva suscitato in lei. «Adesso mi rendo conto che hai ragione a lamentarti che il terreno pianeggiante scarseggia» disse.

«Non esiste… qui… il terreno pianeggiante» precisò Iziezi, parlando a scatti. Rimanendo aggrappata, alzò un attimo una mano verso l’enorme mole verticale del Silong, che scintillava con bagliori bianchi e dorati sopra i tetti e le colline già immersi nel crepuscolo.

Nell’atrio della locanda, Sutty disse: «Spero di poter ancora venire presto al vostro corso di esercizio fisico».

Iziezi fece un gesto che avrebbe potuto essere di garbato assenso o di scusa sconsolata.