Il Portale si era aperto.
Raistlin si era mosso per valicarlo, ma un magico congegno per i viaggi nel tempo fatto funzionare da Caramon, fratello gemello del mago, e dal kender Tasslehoff Burrfoot interferì con il potente incantesimo dell’arcimago. Il campo magico era stato disgregato... ... con impreviste e disastrose conseguenze.
Capitolo primo.
“Umpf,” fece Tasslehoff Burrfoot. Caramon fissò il kender con occhio severo.
“Non è colpa mia! Davvero, Caramon!” protestò Tas.
Ma proprio mentre parlava, lo sguardo del kender andò al territorio circostante... Alzò gli occhi a fissare Caramon, poi li riportò sul territorio circostante. Il labbro inferiore di Tas cominciò a tremare e il kender allungò la mano verso il fazzoletto, nel caso in cui avesse starnutito. Ma il suo fazzoletto non era là, le sue borse non erano là. Tas sospirò. Nell’eccitazione del momento se n’era dimenticato: tutto era rimasto nelle segrete di Thorbardin.
Era stato un momento eccitante. Un attimo prima lui e Caramon si trovavano nella magica fortezza di Zhaman, intenti ad attivare il magico congegno per i viaggi nel tempo; l’attimo successivo Raistlin aveva operato la sua magia e, prima che Tas avesse il tempo di accorgersene, c’era stata una terribile baraonda: le pietre cantavano, le rocce si frantumavano... e l’orribile sensazione di venire tirati contemporaneamente in sei direzioni diverse e poi, wuush, si erano trovati là.
Dovunque fosse là. Comunque, non pareva trovarsi dove avrebbe dovuto.
Lui e Caramon erano su un sentiero di montagna accanto a un grosso macigno, affondando fino alle caviglie in un fango viscido, color grigio cenere, che ricopriva completamente il terreno sotto di loro fin dove Tas riusciva a spingere lo sguardo. Qua e là, bordi frastagliati di rocce infrante sporgevano dalla cedevole superficie di quella coltre di cenere. Non c’era alcun segno di vita.
Niente avrebbe potuto esser vivo in quella desolazione. Non c’era nessun albero in piedi, soltanto moncherini anneriti dal fuoco spuntavano dallo spesso strato di fango. Fin dove poteva arrivare l’occhio, fino all’orizzonte, in ogni direzione, non c’era nulla se non la devastazione più totale e definitiva. Il cielo stesso non offriva nessun sollievo. Sopra le loro teste, si stendeva grigio e vuoto.
Ma a occidente sfumava in uno strano colore violetto, un cumulo ribollente di nuvole luminescenti inghirlandate da lampi d’un vivido azzurro. Fatta eccezione per il lontano rombare del tuono, non c’erano suoni... né movimenti... niente.
Caramon esalò un profondo sospiro e si sfregò una mano sul viso. Il calore era intenso, e già, malgrado si trovassero là soltanto da pochi minuti, la sua pelle intrisa di sudore era coperta da un sottile strato di cenere grigia.
“Dove siamo?” chiese, con voce calma e misurata.
“Sono... sono certo di non averne la minima idea, Caramon,” dichiarò Tas. E dopo qualche istante:
“E tu?”
“Ho fatto tutto come mi hai detto tu,” replicò Caramon, e la sua voce suonò ancora sinistramente calma. “Hai detto che Gnimsh aveva detto che tutto quello che dovevamo fare era pensare a dove volevamo andare, e che lì ci saremmo trovati. Io so che pensavo a Solace...”
“Anch’io!” gridò Tas. Poi, vedendo Caramon che lo fissava infuriato, il kender esitò. “Per lo meno ci ho pensato per la maggior parte del tempo...”
“La maggior parte del tempo?” chiese Caramon con la voce ancor più orrendamente calma.
“Insomma...” deglutì Tas, “io ho... ho pen... pensato, ma solo per un istante intendiamoci, a quanto... ehm... a quanto sarebbe stato interessante e unico, visitare... uhm... uhm...”
“Uhm cosa?” incalzò Caramon.
“Una... uhmmmm.”
“Una cosa?”
“Mmmmmm,” bofonchiò Tas.
Caramon inspirò fragorosamente.
“Una luna!” esclamò Tas.
“Una luna!” ripetè Caramon incredulo. “Quale luna?” chiese un istante dopo, guardandosi intorno.
“Oh,” Tas scrollò le spalle, “una qualunque delle tre. Suppongo che una valga l’altra. Molto simili, immagino. Salvo, naturalmente, che tutte le rocce di Solinari dovrebbero luccicare d’argento, e quelle di Lunitari essere d’un rosso smagliante. E immagino che la terza debba essere tutta nera, anche se non posso dirlo di sicuro, non avendo mai visto...”
A questo punto Caramon cacciò un ringhio, e Tas decise che sarebbe stato assai meglio mettere a freno la lingua. E riuscì anche a farlo, per circa tre minuti, durante i quali Caramon continuò a scrutare i dintorni con una faccia solenne. Ma ci sarebbe voluta una capacità di autocontrollo ben maggiore di quanta il kender possedeva (oppure un coltello acuminato alla gola) per costringere la sua lingua a star zitta più a lungo.
“Caramon,” farfugliò, “tu pe... pensi che ci siamo davvero riusciti? Che siamo arrivati su una... uhm... luna, intendo dire. Questo non assomiglia certo a nessun posto in cui sono stato prima. Non che queste rocce siano d’argento, rosse, o anche soltanto nere. Hanno più che altro il colore della roccia, ma...”
“Non ne dubiterei affatto,” disse Caramon, cupo. “Dopotutto, non ci hai già condotto in una città marittima che si trovava nel bel mezzo di un deserto...”
“Neanche quella è stata colpa mia!” esclamò Tas, indignato. “Diamine, perfino Tanis ha detto...”
“Tuttavia,” il volto di Caramon s’increspò, perplesso, “questo posto sembra davvero strano, ma per qualche motivo ha un aspetto familiare.”
“Hai ragione,” annuì Tas un istante dopo, tornando a fissare il paesaggio desolato, soffocato dalle ceneri intorno a loro. “Mi ricorda qualcosa, adesso che l’hai detto. Soltanto che,” il kender rabbrividì, “non ricordo di essere mai stato in un posto così orribile... salvo l’Abisso,” aggiunse sottovoce.
Le nubi ribollenti si avvicinavano sempre di più mentre i due parlavano, stendendo un’ulteriore, plumbea cappa sopra quella terra spoglia. Cominciò a soffiare un vento rovente e a cadere una pioggia sottile, mescolandosi con la cenere che aleggiava nell’aria. Tas stava giusto per commentare la qualità melmosa della pioggia quando, all’improvviso, senza nessun preavviso, il mondo esplose.
Per lo meno, fu questa la prima impressione che ebbe Tas: una luce vivida, accecante, un crepitio assordante, un rombo che scosse il suolo, e Tasslehoff si trovò seduto nel fango grigio, fissando istupidito un gigantesco foro che era stato aperto nella roccia da un’esplosione a non più di cento passi da lui.
“In nome degli dei!” rantolò Caramon. Tese le braccia verso il basso, agguantò Tas e lo trascinò in piedi. “Stai bene?”
“Penso... penso di sì,” disse Tas, un po’ scosso. Mentre guardava, la folgore colpì di nuovo, sprizzando dalla nube fino al suolo, scagliando in aria rocce e ceneri.
“Caspita! Questa sì che è stata un’esperienza davvero interessante. Anche se non m’importa affatto ripeterla subito,” si affrettò ad aggiungere, timoroso che il cielo, che di momento in momento stava diventando più buio, potesse decidere di riservargli un’altra volta quell’elettrizzante esperienza.
“Dovunque siamo, sarà meglio lasciare quest’altura,” borbottò Caramon. “Vedo che, almeno, qui c’è un sentiero. Deve condurre da qualche parte.”
Lanciando un’occhiata lungo il sentiero intasato dal fango, giù fino alla valle sottostante parimenti soffocata dal fango, Tas ebbe il fugace pensiero che Da Qualche Parte dovesse essere ugualmente grigio e melmoso come Qui, ma dopo aver dato un’occhiata al volto cupo di Caramon, il kender decise prontamente di tenere per sé quel pensiero.