Non era stato lo zio Trapspringer a trovarsi là, prima...
“Oh, Caramon!” bisbigliò, in preda all’orrore.
Capitolo secondo.
“Che c’è?” Caramon si voltò, guardando Tas in maniera così strana che il kender sentì il formicolio che provava dentro di sé diffondersi all’esterno. La pelle d’oca gli stava comparendo lungo tutte le braccia.
“N... niente,” balbettò Tas. “Soltanto la mia immaginazione. Caramon,” si affrettò poi ad aggiungere, “andiamocene! Subito. Possiamo andare dove vogliamo! Possiamo tornare indietro nel tempo, quando eravamo tutti insieme, quando eravamo tutti felici! Possiamo tornare indietro, fino a quando Flint e Sturm erano vivi e Raistlin indossava ancora le Vesti Rosse, e Tika...”
“Chiudi il becco, Tas!” sbottò Caramon, minaccioso. Le sue parole vennero accentuate da un lampo che fece sussultare perfino il kender.
Il vento stava crescendo d’intensità, sibilando con un suono arcano attraverso i resti degli alberi morti, come se qualcuno stesse esalando un tremulo respiro attraverso i denti stretti. La pioggia calda e viscida era cessata. Le nuvole sopra di loro passarono via turbinando, rivelando il pallido sole che sembrava ondeggiare nel cielo grigio. Ma all’orizzonte le nuvole continuavano ad ammassarsi, e diventavano sempre più nere. Lampi multicolori guizzavano in mezzo a esse, impartendo alla coltre turbinante una lontana, micidiale bellezza.
Caramon riprese a camminare lungo il sentiero fangoso, serrando i denti per il dolore alla gamba ferita. Ma Tas, guardando in fondo al sentiero che adesso conosceva fin troppo bene, anche se era talmente diverso da lasciare sgomenti, potè vedere dove svoltava. Sapendo ciò che si trovava dietro quella curva, rimase là dov’era, piantato saldamente in mezzo alla strada, gli occhi fissi sulla schiena di Caramon.
Dopo qualche istante di anormale silenzio, Caramon si rese conto che c’era qualcosa di sbagliato e si guardò intorno. Si fermò, il volto tirato per il dolore e la fatica.
“Su, vieni, Tas!” lo sollecitò, irritato.
Attorcigliandosi un ciuffo di capelli intorno a un dito, Tas scosse la testa.
Caramon lo fissò furibondo.
Tas alla fine esplose: “Quelli sono vallenwood, Caramon!”
L’espressione severa sul volto dell’omone si addolcì. “Lo so, Tas,” disse con voce stanca. “Questa è Solace.”
“No, non lo è!” gridò Tas. “È... è soltanto un posto dove c’erano dei vallenwood! Devono esserci un sacco di posti dove crescono i vallenwood!”
“E ci sono un sacco di posti dove c’è il lago Crystalmir, Tas, o dove s’innalzano i Monti Kharolis, o dove si erge quel macigno lassù dove tutti e due abbiamo visto Flint seduto che scolpiva il legno, o dove si stende questa strada che conduce a...”
“Non puoi saperlo!” gridò Tas con rabbia. “Sì, non puoi saperlo.” All’improvviso corse avanti, o tentò di farlo, trascinando i piedi in mezzo al fango appiccicoso quanto più velocemente possibile.
Incespicò su Caramon, afferrò la mano dell’omone e la tirò. “Andiamo! Andiamo via da qui!”.
Ancora una volta alzò la mano che stringeva il congegno per i viaggi nel tempo. “Po... possiamo tornare a Tharsis! Là, dove i draghi mi hanno fatto crollare addosso un edificio! Quella era un’epoca in cui ci divertivamo, era molto interessante. Non ricordi?”. La sua voce acuta stridette attraverso gli alberi bruciati.
Allungando una mano, la faccia scura, Caramon tirò via il congegno magico dalla mano del kender.
Ignorando le frenetiche proteste di Tas, strinse il congegno tra le dita e cominciò a torcere e a girare il gioiello, trasformando gradualmente l’oggetto da uno scettro scintillante in un semplice, anonimo ciondolo. Tas lo contemplò con aria infelice.
“Ma perché non ce ne andiamo via, Caramon? Questo posto è orribile. Non abbiamo né cibo né acqua e, da quello che ho potuto vedere, ci sono assai poche probabilità di trovarne qui intorno. Inoltre, abbiamo buone possibilità di venire sparati fuori dalle nostre scarpe, se una di quelle saette ci colpisse, e quella tempesta si sta avvicinando sempre di più, e tu sai che questa non è Solace.”
“Non lo so, Tas,” replicò Caramon con calma. “Ma lo scoprirò. Cosa c’è? Non sei curioso? Da quando in qua un kender ha mai rifiutato la possibilità di vivere un’avventura?”. Riprese a scendere il sentiero con passo claudicante.
“Sono curioso come qualunque altro kender,” borbottò Tas, abbassando la testa e trascinandosi dietro a Caramon. “Ma un conto è essere curiosi di un posto dove non si è mai stati prima, e un altro essere curiosi di casa propria. Non bisogna mai essere curiosi delle cose di casa tua! La casa non dovrebbe mai cambiare. Se ne sta là in attesa del tuo ritorno. La ; casa è un posto che ti fa dire:
“Perdiana, sembra proprio uguale a come l’ho lasciata quando me ne sono andato!”, e non:
“Perdiana, pare che sei milioni di draghi ci siano volati dentro e abbiano distrutto tutto!”. La casa non è un posto per le avventure, Caramon!”
Tas sollevò lo sguardo sbirciando la faccia di Caramon per vedere se la sua argomentazione avesse fatto una qualche impressione. Se l’aveva fatta, non si notava. C’era un’espressione di severa determinazione su quella faccia colma di dolore, che lasciò Tas piuttosto sorpreso... sorpreso e anche stupito.
D’un tratto Tas si rese conto che Caramon era cambiato. E non soltanto per aver rinunciato allo spirito dei nani. C’era qualcosa di diverso in lui: era più serio e... sì, responsabile. Ma c’era qualcos’altro, rifletté Tas. L’orgoglio, decise dopo un minuto di profonda riflessione. L’orgoglio di sé, l’orgoglio e una ferma decisione.
Questo non è un Caramon disposto ad arrendersi facilmente, pensò Tas con un tuffo al cuore.
Questo non è un Caramon che ha bisogno di un kender che lo tenga lontano dai guai e dalle taverne.
Tas sospirò desolato. Avrebbe sentito la mancanza di quel vecchio Caramon.
Arrivarono a una curva della strada. Tutti e due la riconobbero, anche se nessuno disse niente:
Caramon, perché non c’era niente da dire, e Tas perché si rifiutava di ammettere di averla riconosciuta. Entrambi scoprirono che il loro passo si era fatto strascicato.
Un tempo i viaggiatori che aggiravano quella curva avrebbero visto la Locanda dell’Ultima Casa risplendente di luci. Avrebbero sentito il profumo delle patate speziate di Otik, avrebbero udito il chiasso delle risate e dei canti aleggiare fuori dalla porta tutte le volte che veniva aperta per accogliere i pellegrini o i clienti fissi di Solace. Come per un tacito accordo, sia Tas sia Caramon si fermarono prima di svoltare quell’angolo.
Non dissero ancora nulla, ma ognuno fissò la desolazione davanti a sé, i moncherini degli alberi riarsi e distrutti, il suolo coperto di cenere, le rocce annerite. Nelle loro orecchie risuonava un silenzio più intenso e spaventoso del rombo del tuono. Perché entrambi sapevano che avrebbero dovuto udire Solace, anche se non potevano ancora vederla. Avrebbero dovuto udire i suoni della città: il martellare del fabbro, il cicaleccio del giorno del mercato, i richiami dei venditori ambulanti, dei bambini, dei bottegai, il vociare della Locanda.
Ma non c’era nulla, soltanto il silenzio. E, molto lontano, in distanza, il sinistro rombo del tuono.
Infine, Caramon sospirò. “Andiamo,” disse, e si incamminò zoppicando.
Tas lo seguì lentamente. Le sue scarpe erano talmente incrostate di fango che gli pareva di portare gli stivali ferrati di un nano. Ma le scarpe non erano neppure lontanamente pesanti quanto il suo cuore. Più e più volte bofonchiò tra sé: “Questa non è Solace, questa non è Solace, questa non è Solace...” fino a quando non cominciò a sembrargli uno degli incantesimi di Raistlin.